OHi Mag Report Geopolitico nr. 137 Introduzione L'articolo "Germany Acts" di George Friedman, pubblicato su Geopolitical Future il 27 maggio 2025, analizza una decisione di portata storica: il dispiegamento permanente di una forza tedesca di 5.000 soldati in Lituania. Questo evento, secondo Friedman, non è un mero aggiustamento tattico, ma il segnale distintivo dell'inizio di una nuova era geopolitica. Al centro di questa trasformazione vi è il progressivo disimpegno militare e finanziario degli Stati Uniti dal sistema globale, con la conseguente richiesta a un'Europa storicamente frammentata di assumersi la responsabilità primaria della propria sicurezza. La mossa tedesca rappresenta la prima, significativa risposta a questa mutata dinamica. Il saggio di Friedman esplora le profonde implicazioni di questa decisione, interrogandosi se essa prefiguri un'azione isolata o l'inizio di un più ampio e coordinato risveglio strategico europeo, con un focus particolare sul ruolo ambiguo e potenzialmente dirompente di una Germania che abbandona decenni di cautela militare. I Fatti così come sono stati descritti George Friedman focalizza la sua analisi sulla decisione della Germania di stanziare in modo permanente una brigata di 5.000 soldati in Lituania. Questo dispiegamento, pur non essendo numericamente sufficiente a respingere un'offensiva russa su vasta scala, assume un valore simbolico e strategico cruciale. È inteso, infatti, come un "filo d'inciampo" (tripwire), concepito per innescare una risposta massiccia da parte dell'Europa e della NATO in caso di aggressione, instillando così un senso di cautela strategica nella Federazione Russa. Friedman sottolinea come questa iniziativa tedesca rappresenti la prima concreta reazione europea alla crescente pressione statunitense affinché il Vecchio Continente si faccia carico della propria difesa. Gli Stati Uniti, infatti, hanno manifestato l'intenzione di limitare la propria esposizione militare e finanziaria globale, spingendo per una rinegoziazione dell'ordine economico e di sicurezza post-Seconda Guerra Mondiale. L'autore evidenzia la peculiarità della scelta tedesca. Se una mossa simile fosse stata intrapresa da Regno Unito, Francia o Polonia – nazioni con una tradizione di proiezione militare più assertiva – l'impatto sarebbe stato diverso. Il fatto che sia stata la Germania, un paese che per decenni ha evitato un ruolo militare prominente a causa del suo pesante fardello storico (due guerre mondiali scatenate e la successiva divisione e occupazione), a compiere questo passo, lo rende eccezionalmente significativo. La Germania riunificata è diventata rapidamente il baricentro economico dell'Europa, ma ha sempre agito con estrema prudenza sul piano militare, memore delle diffidenze storiche dei suoi vicini. Questo dispiegamento, accolto positivamente da USA e altri partner europei, infrange l'impegno tedesco a mantenere ambizioni modeste in termini di leadership continentale. Friedman pone una domanda fondamentale: questo atto tedesco rimarrà isolato o sarà il precursore di una serie di iniziative analoghe da parte di altre nazioni europee? Egli ricorda che "Europa" è solo un nome geografico per un continente composto da 44 stati sovrani, e una risposta coordinata avrebbe un significato ben diverso da 44 risposte individuali. Di particolare interesse sarà osservare le mosse dei principali attori militari europei in seno alla NATO: Regno Unito, Francia, Polonia, oltre alla stessa Germania. La guerra in Ucraina, sebbene non direttamente confinante con la Lituania, ha reso possibile scenari precedentemente impensabili, come lo stazionamento permanente di forze europee in posizioni avanzate per bloccare un'eventuale aggressione russa verso ovest. La scelta della Lituania come sede del contingente è strategicamente oculata: confina con Lettonia, Polonia e Bielorussia, ma non direttamente con Russia o Ucraina, minimizzando la percezione di una minaccia immediata per Mosca pur posizionando le truppe in un'area nevralgica. Conseguenze Geopolitiche Le conseguenze geopolitiche della mossa tedesca sono profonde e multidimensionali. In primo luogo, essa segnala la potenziale rinascita della Germania come attore geopolitico di primo piano, non solo economico ma anche militare. Per quasi ottant'anni, la Germania è stata, in una certa misura, uno "stato paria" dal punto di vista della proiezione di potenza, vincolata dalla sua storia e dalla volontà degli Alleati. Il dispiegamento in Lituania potrebbe indicare la volontà tedesca di superare queste autolimitazioni e di assumere un ruolo più consono al suo peso economico e demografico. Friedman suggerisce che, sebbene la paura della potenza tedesca possa sembrare obsoleta ad alcuni, essa potrebbe non esserlo affatto per molti paesi europei che conservano una "lunga memoria" storica dei conflitti passati. Questa evoluzione pone l'Europa di fronte a una nuova realtà: non dovrà più considerare solo le direttive o i desideri degli Stati Uniti, ma anche le ambizioni e le capacità emergenti della Germania. Ciò potrebbe alterare significativamente gli equilibri di potere interni all'Unione Europea e alla NATO. La leadership franco-tedesca, tradizionale motore dell'integrazione europea, potrebbe subire una trasformazione, con una Germania più assertiva che potrebbe cercare di imprimere una direzione più definita alla politica di sicurezza comune. Al contempo, paesi come la Polonia, già scettici nei confronti di un eccessivo protagonismo tedesco, potrebbero vedere rafforzate le loro preoccupazioni, spingendo per meccanismi di bilanciamento o per un rafforzamento del fianco orientale attraverso iniziative proprie o multilaterali che non dipendano esclusivamente da Berlino. Sul piano globale, la decisione tedesca risponde all'esortazione americana affinché l'Europa si assuma maggiori responsabilità. Tuttavia, un'Europa più autonoma militarmente, con una Germania più forte al suo interno, potrebbe anche sviluppare interessi strategici non sempre coincidenti con quelli di Washington. Questo scenario apre la porta a un sistema internazionale più multipolare, dove l'Europa potrebbe agire con maggiore indipendenza, complicando potenzialmente la diplomazia statunitense ma, al contempo, alleggerendo il fardello americano. Per la Russia, la mossa tedesca è un chiaro segnale. Sebbene una singola brigata non possa fermare un'offensiva su larga scala, la sua presenza in Lituania eleva considerevolmente la posta in gioco per qualsiasi avventurismo russo nei Paesi Baltici, rendendo quasi automatico un coinvolgimento della NATO e, potenzialmente, degli Stati Uniti. Questo rafforza la deterrenza sul fianco orientale dell'Alleanza. Conseguenze Strategiche Dal punto di vista strategico, il dispiegamento tedesco in Lituania offre un potenziale modello per la futura difesa europea. Friedman lo definisce un "blueprint": posizionare forze in posizioni avanzate, vicine ma non direttamente sul confine russo, per dimostrare risolutezza e dare ai paesi europei il tempo di reagire rapidamente, pur mantenendo aperte le opzioni per una risposta più ampia della NATO. La Lituania, non confinando direttamente con la Russia continentale (escludendo Kaliningrad) né con l'Ucraina, permette a Mosca di non interpretare il dispiegamento come una minaccia militare diretta alle sue operazioni in Ucraina o al suo territorio, ma al contempo segnala che ulteriori espansioni verso ovest comporterebbero rischi inaccettabili. Questa strategia di "deterrenza avanzata" mira a prevenire un'escalation, mostrando che un attacco alla Lituania attraverso, ad esempio, la Bielorussia, attiverebbe immediatamente una crisi su vasta scala coinvolgendo la Germania e, per estensione, l'intera Alleanza Atlantica. La permanenza della forza è un altro elemento strategico chiave: non si tratta di esercitazioni temporanee, ma di un impegno a lungo termine che cementa la credibilità della deterrenza. Friedman sottolinea che, sebbene possa sembrare irrealistico oggi pensare che la Russia possa avventurarsi oltre l'Ucraina, le nazioni non elaborano piani strategici a lungo termine sperando nel meglio, ma preparandosi al peggio. La decisione statunitense di ritirarsi parzialmente dalla responsabilità primaria per la sicurezza europea, finora più retorica che fattuale, ha comunque creato una "crisi" o, più precisamente, un vuoto strategico che l'Europa è chiamata a colmare. L'iniziativa tedesca è una prima risposta a questo vuoto. Tuttavia, la sua efficacia dipenderà dalla capacità degli altri principali attori europei – Francia, Regno Unito, Polonia – di intraprendere azioni complementari e coordinate. Un'alleanza come la NATO, ricorda Friedman, esiste solo quando le nazioni associate condividono una visione del mondo e degli interessi. Il passo tedesco potrebbe forzare l'Europa a confrontarsi con decisioni difficili sulla propria postura di difesa collettiva. Non decidere, in questo contesto, equivale a una decisione con conseguenze potenzialmente gravi. La speranza è che l'esempio tedesco venga emulato, anche se, come nota l'autore, è improbabile che alla Germania venga concesso un ruolo di leadership indiscussa, data la sua storia. Conseguenze Marittime L'articolo di George Friedman si concentra prevalentemente sulle dinamiche terrestri e sulle implicazioni politico-strategiche continentali del dispiegamento tedesco in Lituania. Non affronta direttamente e in dettaglio le conseguenze marittime specifiche di questa singola mossa. Tuttavia, è possibile estrapolare alcune considerazioni generali basate sul contesto più ampio di un'Europa che si assume maggiori responsabilità per la propria sicurezza e di una Germania più assertiva. La Lituania è uno Stato baltico, con accesso al Mar Baltico, un'area marittima di cruciale importanza strategica per la NATO e per la Russia (dove ha sede la sua Flotta del Baltico e l'exclave di Kaliningrad). Un rafforzamento della presenza militare NATO sul fianco nord-orientale, come simboleggiato dal contingente tedesco, implicitamente aumenta l'importanza della sicurezza marittima nel Baltico. Qualsiasi potenziale conflitto o escalation nella regione avrebbe una componente marittima significativa, riguardante il controllo delle SLOC, l'accesso ai porti e la proiezione di potenza navale. Una Germania più consapevole del proprio ruolo strategico potrebbe, nel tempo, essere spinta a investire maggiormente anche nelle proprie capacità navali e a partecipare più attivamente a operazioni di sicurezza marittima nel Baltico e nel Mare del Nord, aree vitali per i suoi interessi economici e di sicurezza. Inoltre, se l'Europa nel suo complesso dovesse sviluppare una politica di difesa più autonoma, ciò includerebbe necessariamente una riflessione sulla protezione delle sue vie di comunicazione marittime (SLOCs), vitali per il commercio e l'approvvigionamento energetico. Un'eventuale instabilità prolungata sul fianco orientale, o una postura russa più aggressiva, potrebbe portare a una maggiore militarizzazione del Baltico, con un aumento del dispiegamento navale, delle esercitazioni e della sorveglianza under-water. Sebbene il dispiegamento tedesco in Lituania sia terrestre, esso si inserisce in un quadro di rafforzata deterrenza che, per essere pienamente efficace nell'area baltica, necessita di un approccio interforze che comprenda anche la dimensione marittima. La "Finlandizzazione" del Baltico, con l'ingresso di Finlandia e Svezia nella NATO, ha già radicalmente alterato gli equilibri marittimi, e l'accresciuto impegno tedesco sulla terraferma lituana contribuisce a consolidare questo nuovo scenario di sicurezza regionale. Conseguenze per l'Italia L'articolo di Friedman non menziona esplicitamente l'Italia, ma le dinamiche descritte hanno implicazioni significative anche per il nostro Paese. L'Italia è un membro fondatore dell'UE e un pilastro della NATO, con un tradizionale focus geostrategico sul Mediterraneo. Tuttavia, la crescente instabilità sul fianco orientale e la richiesta statunitense di maggiore "burden sharing" (condivisione degli oneri) la coinvolgono direttamente. La mossa tedesca potrebbe fungere da catalizzatore, aumentando le aspettative nei confronti di tutti i principali partner europei, Italia inclusa, affinché contribuiscano più attivamente alla difesa collettiva, non solo nelle aree di tradizionale interesse nazionale ma anche laddove la minaccia è percepita come più immediata per l'Alleanza. Un'Europa che si assume maggiori responsabilità per la propria sicurezza richiederà inevitabilmente un aumento della spesa per la difesa e un maggiore coordinamento delle politiche militari. Per l'Italia, ciò potrebbe tradursi in pressioni per incrementare il bilancio della Difesa e per partecipare con contingenti più consistenti alle missioni NATO sul fianco orientale, bilanciando questi impegni con la necessaria attenzione al Mediterraneo Allargato. La rinascita della Germania come attore militare più assertivo potrebbe alterare gli equilibri di potere interni all'UE. L'Italia dovrà definire la propria posizione in questo nuovo contesto, cercando di mantenere un ruolo influente nelle decisioni europee in materia di sicurezza e difesa, magari rafforzando l'asse con la Francia o cercando nuove forme di cooperazione con altri partner. Inoltre, se l'iniziativa tedesca dovesse effettivamente stimolare una maggiore integrazione europea nel settore della difesa, l'Italia, con la sua importante industria della difesa, potrebbe trovare nuove opportunità di collaborazione industriale e tecnologica a livello continentale. Tuttavia, vi è anche il rischio che un focus eccessivo sul fianco orientale possa distogliere risorse e attenzione politica dalle sfide provenienti dal fianco sud, cruciali per la sicurezza italiana. Sarà quindi fondamentale per l'Italia promuovere un approccio a 360 gradi alla sicurezza europea, che tenga conto di tutte le direttrici della minaccia e che valorizzi il contributo italiano alla stabilità sia orientale che meridionale dell'Alleanza e dell'Unione. La decisione tedesca, in ultima analisi, costringe anche l'Italia a riflettere più profondamente sul proprio ruolo e sulle proprie responsabilità in un'Europa in rapida trasformazione strategica. Conclusioni La decisione tedesca di schierare una forza permanente in Lituania, come analizzato da George Friedman, è molto più di una semplice manovra militare: è un sismografo che registra l'inizio di una nuova faglia geostrategica. Essa incarna la risposta più tangibile finora all'esortazione americana per un'Europa militarmente più autonoma e responsabile della propria sicurezza. Friedman vede in questo atto il potenziale ritorno della Germania sulla scena geopolitica come attore di peso, non solo economico, ma anche militare, una prospettiva che, se da un lato rafforza la deterrenza NATO sul fianco orientale, dall'altro risveglia antiche memorie e possibili diffidenze tra i partner europei. La questione cruciale sollevata è se questo passo rimarrà un'iniziativa isolata o se catalizzerà un più ampio e coordinato sforzo europeo verso una reale capacità di difesa collettiva. Le raccomandazioni che emergono implicitamente dall'analisi di Friedman sono indirizzate all'Europa nel suo complesso. Innanzitutto, vi è la necessità impellente che il continente prenda coscienza della nuova realtà strategica e agisca di conseguenza. "Non decidere è una decisione", ammonisce Friedman, sottolineando l'urgenza di una risposta coesa. L'Europa deve superare la sua storica frammentazione e sviluppare una visione strategica comune, supportata da capacità militari credibili. In secondo luogo, pur accogliendo positivamente iniziative come quella tedesca, è fondamentale che esse si inseriscano in un quadro multilaterale solido, preferibilmente NATO ed UE, per evitare derive nazionalistiche e per rassicurare i partner più scettici. La "lunga memoria" europea suggerisce che una leadership tedesca, per quanto necessaria, dovrà essere esercitata con sensibilità e in stretta concertazione. L'obiettivo finale dovrebbe essere un'Europa capace di difendere i propri interessi e valori, in partnership ma non più in totale dipendenza dagli Stati Uniti, affrontando con pragmatismo e unità le sfide di un'era geopolitica sempre più complessa e instabile. Riferimento: Friedman, George, "Germany Acts", Geopolitical Futures, 27 May 2025, geopoliticalfutures.com. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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OHi Mag Report Geopolitico nr. 136 Introduzione L'articolo "Russia Vows to Defend Its Ships in Baltic Sea", pubblicato da Bloomberg News il 21 maggio 2025 e ripreso da gCaptain.com, getta luce su un'escalation di tensioni nel Mar Baltico, un'area marittima di cruciale importanza strategica ed economica. Al centro della contesa vi è la cosiddetta "flotta ombra", un insieme di petroliere, spesso datate e con coperture assicurative opache, utilizzate per trasportare il greggio russo eludendo le sanzioni internazionali. Le nazioni baltiche della NATO, preoccupate per i rischi ambientali, di sicurezza e per potenziali danni a infrastrutture critiche come cavi sottomarini, hanno intensificato i controlli su queste navi. La risposta russa, culminata in un'incursione aerea e nella minaccia di difendere le proprie navi "con tutti i mezzi legali", segnala un potenziale inasprimento del confronto in un teatro già sensibile, con profonde implicazioni geopolitiche, strategiche e marittime, che meritano un'attenta analisi. I Fatti L'articolo di Bloomberg News riporta una serie di eventi recenti che hanno acuito le tensioni nel Mar Baltico. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha dichiarato mercoledì 21 maggio 2025 che la Russia difenderà le proprie navi nel Baltico "con tutti i mezzi legali", sottolineando che Mosca dispone di "una gamma abbastanza ampia di mezzi" e che, come dimostrato da recenti eventi, è "capace di rispondere in modo piuttosto duro" a quelli che ha definito "tentativi di attacchi pirateschi" contro le sue petroliere. Questa dichiarazione segue un episodio particolarmente significativo avvenuto la settimana precedente: un caccia russo è entrato brevemente nello spazio aereo della NATO mentre funzionari estoni tentavano di ispezionare una petroliera della "flotta ombra" che navigava con un carico di petrolio russo all'interno della zona economica esclusiva dell'Estonia. Le nazioni baltiche (Estonia, Lettonia, Lituania) e altri paesi rivieraschi come Polonia, Finlandia e Germania, sono sempre più preoccupate per l'attività di queste navi. I timori riguardano non solo la violazione delle sanzioni, ma anche i rischi per la sicurezza (potenziali attività di spionaggio o sabotaggio), i danni a infrastrutture critiche sottomarine (cavi elettrici e per le comunicazioni internet), e i pericoli ambientali derivanti dall'età avanzata di molte di queste imbarcazioni e dalle loro coperture assicurative fornite da compagnie poco note o affidabili. In risposta a queste preoccupazioni, i leader baltici hanno promesso un giro di vite sulle petroliere della "flotta ombra" nelle loro acque, intensificando i controlli sulla conformità delle polizze assicurative e sul rispetto delle normative internazionali. Diversi di questi vascelli sono stati effettivamente trattenuti dalle autorità in Germania, Finlandia ed Estonia negli ultimi mesi. Ulteriori incidenti confermano l'escalation. Durante il fine settimana precedente alle dichiarazioni di Peskov, la Russia ha trattenuto una nave che trasportava shale oil da un porto estone. La nave ha potuto proseguire il suo viaggio solo dopo due giorni di ancoraggio forzato vicino a un'isola baltica controllata dalla Russia. Inoltre, sempre mercoledì, il Primo Ministro polacco Donald Tusk ha riferito che una nave russa sanzionata stava compiendo "manovre sospette" vicino al cavo elettrico sottomarino che collega Polonia e Svezia. La petroliera si è poi diretta verso un porto russo dopo un "efficace intervento da parte delle nostre forze armate [polacche]". Nonostante la Russia abbia in gran parte perso il mercato petrolifero europeo a causa delle sanzioni, i porti baltici russi (come San Pietroburgo, Ust-Luga, Primorsk) rimangono cruciali per spedire greggio e prodotti petroliferi nella regione, destinati poi a ulteriori consegne verso Asia e America Latina. L'articolo specifica che, finora, poiché molte delle navi della "flotta ombra" non battono bandiera russa, Mosca si era astenuta da interventi diretti o commenti ufficiali. Tuttavia, l'incidente del caccia e le successive dichiarazioni di Peskov indicano un cambio di atteggiamento e una maggiore assertività russa. Conseguenze Geopolitiche Gli eventi descritti nel Baltico hanno profonde conseguenze geopolitiche. In primo luogo, essi evidenziano come il Mar Baltico sia diventato un fronte caldo nella più ampia contrapposizione tra Russia e Occidente, acuita dalla guerra in Ucraina e dalle sanzioni. La determinazione russa a mantenere attive le proprie rotte di esportazione petrolifera, vitali per le entrate statali, si scontra con la volontà dei paesi NATO rivieraschi di far rispettare le sanzioni e proteggere i propri interessi di sicurezza e ambientali. L'incursione di un caccia russo nello spazio aereo NATO, seppur breve, rappresenta una provocazione e un test della reattività dell'Alleanza. La minaccia di Peskov di utilizzare "tutti i mezzi legali" per difendere le navi, abbinata a una risposta "piuttosto dura", suggerisce che Mosca è disposta ad alzare il livello dello scontro, potenzialmente utilizzando anche mezzi militari per scortare o proteggere la "flotta ombra". Questo aumenta il rischio di incidenti e di un'escalation involontaria tra forze russe e NATO in un'area marittima congestionata e strategicamente sensibile. Le azioni dei paesi baltici e della Polonia, supportate da altre nazioni europee, dimostrano una crescente coesione e determinazione nel contrastare le attività della "flotta ombra". Questo potrebbe portare a una maggiore cooperazione in ambito NATO e UE per la sorveglianza marittima, la condivisione di intelligence e l'applicazione coordinata delle sanzioni nel Baltico. Tuttavia, la questione solleva anche interrogativi sul diritto internazionale e sulla giurisdizione nelle zone economiche esclusive, specialmente quando si tratta di navi che battono bandiere di comodo. La dipendenza della Russia dalle esportazioni di petrolio e la sua necessità di utilizzare i porti baltici per raggiungere mercati alternativi in Asia e America Latina la rendono vulnerabile, ma anche più propensa a rischiare per proteggere questa vitale fonte di reddito. La situazione nel Baltico potrebbe diventare un modello per altre aree dove la Russia cerca di eludere le sanzioni, e la risposta occidentale in questo teatro potrebbe influenzare le dinamiche altrove. Conseguenze Strategiche Dal punto di vista strategico, le tensioni nel Baltico impongono una ricalibrazione delle posture difensive e delle strategie di deterrenza da parte della NATO. La presenza costante della "flotta ombra" e le manovre sospette di navi russe vicino a infrastrutture critiche sottomarine (come evidenziato dal caso del cavo Polonia-Svezia) sollevano la minaccia di una guerra ibrida, in cui azioni di sabotaggio o spionaggio potrebbero essere condotte sotto la copertura di attività marittime apparentemente civili. La necessità di monitorare, identificare e potenzialmente intercettare un gran numero di navi della "flotta ombra" richiede un potenziamento delle capacità di Intelligence, Sorveglianza e Ricognizione (ISR) marittima da parte dei paesi NATO. Questo include l'impiego di pattugliatori marittimi, droni, satelliti e sistemi di guerra elettronica. La risposta "piuttosto dura" minacciata dalla Russia implica che qualsiasi operazione di ispezione o fermo di navi potrebbe incontrare una reazione militare russa, richiedendo quindi che le forze navali e aeree della NATO siano preparate a scenari di confronto diretto, seppur localizzato. La protezione delle infrastrutture sottomarine critiche diventa una priorità strategica. Questo potrebbe comportare un aumento delle attività di pattugliamento e sorveglianza in prossimità di tali asset, nonché lo sviluppo di capacità di rilevamento e intervento rapido in caso di minacce. La guerra elettronica potrebbe giocare un ruolo crescente, sia da parte russa per proteggere le proprie navi o disturbare i sistemi di sorveglianza NATO, sia da parte NATO per monitorare o neutralizzare le attività della "flotta ombra". La breve incursione del caccia russo suggerisce che la Russia è disposta a utilizzare asset aerei per segnalare la propria determinazione, il che richiede una costante prontezza delle difese aeree NATO nella regione. La strategia russa sembra mirare a erodere l'efficacia delle sanzioni e a dimostrare la capacità di Mosca di proiettare influenza anche in acque fortemente presidiate dalla NATO. Conseguenze Marittime Il dominio marittimo del Baltico è direttamente influenzato da questa situazione. La presenza di un gran numero di petroliere vecchie, con standard di sicurezza e assicurativi dubbi, aumenta esponenzialmente il rischio di incidenti ambientali catastrofici, come sversamenti di petrolio, in un mare semi-chiuso e particolarmente vulnerabile dal punto di vista ecologico. La gestione di un tale disastro sarebbe complessa e costosa, con potenziali ripercussioni transfrontaliere. Le operazioni di ispezione e controllo del traffico marittimo da parte delle autorità dei paesi rivieraschi NATO diventano più rischiose e complesse, data la potenziale reazione russa. Questo potrebbe portare a un aumento della presenza di unità navali militari NATO per scortare le squadre di ispezione o per garantire la sicurezza della navigazione. La "flotta ombra" contribuisce a congestionare ulteriormente rotte marittime già trafficate, aumentando il rischio di collisioni e incidenti. La libertà di navigazione, un principio cardine del diritto marittimo internazionale, potrebbe essere messa in discussione se si verificassero frequenti incidenti o confronti tra navi russe (o quelle che trasportano il suo petrolio) e le forze dei paesi NATO. La necessità di garantire la sicurezza dei trasporti marittimi e delle infrastrutture portuali nel Baltico potrebbe portare all'adozione di misure di controllo più stringenti, con possibili impatti sui costi e sui tempi del commercio marittimo lecito. Le compagnie di navigazione e le assicurazioni marittime potrebbero rivedere i loro premi e le loro politiche per le operazioni nel Baltico, data l'accresciuta percezione del rischio. Conseguenze per l'Italia Sebbene l'Italia non sia un paese rivierasco del Mar Baltico, le conseguenze di un'escalation di tensioni in quest'area non sono trascurabili. In primo luogo, come membro della NATO e dell'Unione Europea, l'Italia è vincolata da impegni di solidarietà e difesa collettiva. Un aumento della tensione o un incidente grave nel Baltico potrebbe richiedere un coinvolgimento italiano, sia a livello diplomatico che, potenzialmente, attraverso il contributo di asset navali o aerei a missioni NATO di sorveglianza o deterrenza nella regione. In secondo luogo, la presenza di navi della Marina Militare nel Baltico è diventata abituale. In terzo luogo la stabilità economica europea è interconnessa. Interruzioni significative nel flusso di petrolio russo, anche se diretto principalmente verso Asia e America Latina tramite trasbordi, o incidenti ambientali nel Baltico, potrebbero avere ripercussioni sui mercati energetici globali e sull'economia europea, con effetti indiretti anche sull'Italia. La coesione dell'UE e della NATO nel far rispettare le sanzioni contro la Russia è un elemento chiave della politica estera italiana, e le sfide poste dalla "flotta ombra" nel Baltico mettono alla prova questa coesione. Inoltre l'Italia ha una forte tradizione marittima e interessi significativi nella sicurezza della navigazione e nella protezione dell'ambiente marino nel Mediterraneo. Le tattiche e le dinamiche osservate nel Baltico – l'uso di "flotte ombra", le minacce a infrastrutture critiche, le risposte assertive – potrebbero fornire un modello per potenziali sfide future anche in altre aree marittime di interesse italiano. Le lezioni apprese dalla NATO e dai paesi baltici nella gestione di questa crisi potrebbero essere utili per rafforzare la sicurezza marittima anche nel Mediterraneo, dove pure esistono rotte energetiche vitali e sfide alla sicurezza. Conclusioni Le crescenti tensioni nel Mar Baltico, alimentate dalle attività della "flotta ombra" russa e dalla reazione assertiva di Mosca ai tentativi di controllo da parte dei paesi NATO, rappresentano un pericoloso campanello d'allarme. La situazione evidenzia la determinazione della Russia a eludere le sanzioni e a proteggere le sue vitali esportazioni petrolifere, anche a costo di aumentare il rischio di incidenti e confronti diretti con l'Alleanza Atlantica. Le nazioni baltiche e la Polonia, supportate da altri partner, sono giustamente preoccupate per i rischi ambientali, di sicurezza e per le potenziali minacce ibride alle loro infrastrutture critiche. È imperativo che la NATO e l'UE mantengano una postura unita e ferma, potenziando le capacità di sorveglianza marittima e la condivisione di intelligence per monitorare efficacemente la "flotta ombra". Parallelamente, è cruciale mantenere aperti canali di comunicazione con la Russia per prevenire errori di calcolo e un'escalation involontaria. Dovrebbero essere rafforzate le misure per garantire la conformità delle navi alle normative internazionali in materia di sicurezza e assicurazioni, e per responsabilizzare gli armatori e gli operatori della "flotta ombra". La protezione delle infrastrutture sottomarine critiche deve diventare una priorità assoluta, richiedendo investimenti e cooperazione internazionale. La crisi nel Baltico sottolinea la necessità di strategie a lungo termine per ridurre la dipendenza energetica dalla Russia e per contrastare le tattiche di guerra ibrida. Riferimento: Bloomberg News, Russia Vows to Defend Its Ships in Baltic Sea, gCaptain.com, 21 Maggio 2025, https://gcaptain.com/russia-vows-to-defend-its-ships-in-baltic-sea/ © RIPRODUZIONE RISERVATA
OHi Mag Report Geopolitico nr. 135 Introduzione Il fascicolo di Foreign Affairs di Maggio/Giugno 2025 si presenta come un'analisi prospettica, quasi uno scenario planning, di un futuro geopolitico prossimo, potenzialmente dominato da un radicale cambiamento nella postura internazionale degli Stati Uniti, specialmente nell'ipotesi di un secondo mandato presidenziale di Donald Trump. Gli articoli convergono nel delineare un mondo che si allontana dal concetto di "competizione tra grandi potenze" come inteso nel decennio precedente, per abbracciare piuttosto una logica di "concerto tra potenze" o, più crudamente, di sfere d'influenza gestite da un numero ristretto di attori chiave – Stati Uniti, Cina e Russia in primis. Questa potenziale trasformazione non è indolore: essa implica una ridefinizione delle alleanze tradizionali, un approccio più transazionale e meno valoriale alla politica estera americana, e un conseguente aumento dell'incertezza e della volatilità per il resto del mondo. Gli autori esplorano le implicazioni di tale scenario, mettendo in luce sia i rischi di frammentazione dell'ordine liberale, sia le (limitate) opportunità per altri attori di ritagliarsi nuovi spazi di manovra. È un quadro speculativo, certo, ma estremamente stimolante per comprendere le dinamiche profonde che potrebbero plasmare il prossimo futuro globale. I Fatti Descritti Gli articoli di Foreign Affairs convergono nel dipingere uno scenario per il 2025 in cui un'ipotetica seconda amministrazione Trump imprime una svolta drastica alla politica estera statunitense. Stacie E. Goddard, in "The Rise and Fall of Great-Power Competition", ipotizza che Trump, anziché proseguire sulla linea della competizione con Cina e Russia, cerchi attivamente accordi e intese, configurando una sorta di "concerto" di uomini forti al comando del globo. Questo si tradurrebbe in una politica di collusione piuttosto che di competizione, con l'obiettivo di imporre una visione condivisa dell'ordine mondiale, spesso a scapito degli alleati tradizionali, i quali verrebbero sottoposti a forti pressioni. A. Wess Mitchell, in "The Return of Great-Power Diplomacy", corrobora questa visione, descrivendo un Trump che avvia audaci aperture diplomatiche verso Mosca, Pechino e persino Teheran, giustificando tale approccio come una forma di "diplomazia strategica" necessaria per un'America sovraesposta. Le trattative potrebbero vertere sulla fine della guerra in Ucraina a condizioni favorevoli per la Russia, su nuovi accordi commerciali e sul controllo degli armamenti nucleari, il tutto condotto con uno stile marcatamente transazionale. Parallelamente, la situazione interna degli Stati Uniti, come analizzato da Jennifer M. Harris in "The Post-Neoliberal Imperative", sarebbe caratterizzata da una profonda polarizzazione politica e da un acceso dibattito sul superamento del neoliberismo, con implicazioni dirette sulla politica economica e industriale, potenzialmente orientata verso forme di protezionismo e di intervento statale. Sul fronte della difesa, Michael Brown, in "The Empty Arsenal of Democracy", lancia un allarme sullo stato delle forze armate USA e della sua base industriale (DIB): scorte di munizioni ai minimi storici, equipaggiamenti obsoleti e una capacità rigenerativa inadeguata a sostenere un conflitto su larga scala contro una grande potenza. Questo deficit capacitivo rende l'America strategicamente vulnerabile. Nel frattempo, il panorama globale vedrebbe una Russia, come descritta da Alexander Gabuev in "The Russia That Putin Made", profondamente anti-occidentale, repressiva al suo interno e sempre più dipendente dalla Cina, rendendo qualsiasi détente con un'amministrazione Trump probabilmente superficiale e precaria. La Cina, analizzata da Rana Mitter in "The Once and Future China" e da Kurt M. Campbell e Rush Doshi in "Underestimating China", continuerebbe la sua ascesa, perseguendo l'obiettivo di diventare una "nazione ricca con un esercito forte", pur dovendo bilanciare le ambizioni militari con la prosperità economica. Pechino, secondo questi autori, ha già superato gli USA in diverse metriche chiave (manifatturiero, alcune tecnologie, dimensioni della marina, arsenali missilistici). Infine, nel Medio Oriente, Dana Stroul ("The Narrow Path to a New Middle East") evidenzia la vulnerabilità del regime iraniano e le opportunità, per Washington e i suoi partner regionali, di ridisegnare gli equilibri contenendo l'influenza di Teheran, sebbene un approccio trumpiano eccessivamente unilaterale potrebbe compromettere tali prospettive. Conseguenze Geopolitiche Le mosse di un'ipotetica amministrazione Trump nel 2025, così come delineate, avrebbero conseguenze geopolitiche di vasta portata. Innanzitutto, si assisterebbe al tramonto definitivo del momento unipolare americano e, potenzialmente, alla frammentazione dell'ordine liberale internazionale così come lo abbiamo conosciuto dal secondo dopoguerra (Goddard, Woods). Al suo posto, emergerebbe un sistema basato su sfere d'influenza e su un "concerto di potenze", dove pochi attori dominanti (USA, Cina, Russia) gestirebbero gli affari globali attraverso accordi diretti, spesso a discapito degli interessi di nazioni minori o di organismi multilaterali. Questo scenario comporterebbe un indebolimento strutturale delle alleanze tradizionali. La NATO e i partenariati nel Pacifico (con Giappone, Corea del Sud, Australia) verrebbero messi a dura prova dalla richiesta americana di un maggior "burden sharing" e da una politica estera USA percepita come inaffidabile e puramente transazionale (Goddard, Mitchell). Gli alleati potrebbero sentirsi abbandonati o costretti a cercare nuove garanzie di sicurezza, magari sviluppando una maggiore autonomia strategica, come ipotizzato da Ngaire Woods in "Order Without America". La stessa Woods suggerisce che, in assenza di una leadership americana, potrebbero emergere forme di cooperazione "demand-driven" tra gruppi di nazioni (come l'UE, l'OPEC, o i BRICS+) per gestire problemi comuni. Il triangolo strategico USA-Russia-Cina subirebbe una profonda riconfigurazione. Un eventuale avvicinamento tattico tra Washington e Mosca (per contenere la Cina) o tra Washington e Pechino (per gestire la Russia o altre crisi) introdurrebbe un'elevata instabilità e imprevedibilità (Goddard, Mitchell, Gabuev). La Russia di Putin, pur diffidente, potrebbe cogliere l'occasione per consolidare le proprie conquiste in Ucraina e minare ulteriormente la coesione occidentale. La Cina, dal canto suo, vedrebbe accrescere il proprio peso specifico, sia come partner occasionale degli USA, sia come attore sempre più influente nelle istituzioni multilaterali, soprattutto se Washington dovesse ritirarsi da esse (Woods, Mitter). Il rischio di un "G-0" o di un "G-3" conflittuale aumenterebbe, con poteri medi e regionali costretti a navigare in acque sempre più agitate, cercando di non finire stritolati tra i giganti. Conseguenze Strategiche Dal punto di vista strategico, le implicazioni sarebbero altrettanto profonde. Per gli Stati Uniti, la svolta trumpiana significherebbe un abbandono del ruolo di leadership globale a favore di una visione più ristretta e nazionalista degli interessi americani, un "America First" portato alle estreme conseguenze (Goddard, Mitchell). Sebbene Mitchell parli della necessità di una "diplomazia strategica" per gestire risorse limitate, il rischio è che questa si traduca in un isolazionismo transazionale. Campbell e Doshi, al contrario, sottolineano come l'unica via per gli USA per competere con la "scala" cinese sia attraverso una "statecraft incentrata sulla capacità" alleata, un approccio diametralmente opposto a quello ipotizzato per Trump. Per l'Europa e gli altri alleati, la conseguenza più immediata sarebbe la necessità stringente di un maggior "burden sharing" e lo sviluppo di una vera autonomia strategica, come evidenziato da Woods e Mitchell, e come implicitamente suggerito da Gabuev riguardo alla deterrenza europea verso la Russia. Ciò richiederebbe investimenti significativi nella difesa e una maggiore coesione politica interna, obiettivi difficili da raggiungere. La credibilità della deterrenza, sia convenzionale sia nucleare, verrebbe messa in discussione. Gli articoli di Lim & Fearon ("The Conventional Balance of Terror") e Freedman ("The Age of Forever Wars") sottolineano i pericoli di un'erosione della deterrenza convenzionale e il rischio di conflitti prolungati e senza chiare strategie di vittoria. La necessità di una "triade convenzionale" per gli USA, e per estensione per i suoi alleati più esposti, diventa cruciale per mantenere la stabilità. La base industriale della difesa occidentale, e americana in particolare, emergerebbe come un tallone d'Achille strategico. L'analisi di Brown ("The Empty Arsenal of Democracy") è impietosa: senza una riforma radicale degli appalti, un aumento degli investimenti e una rivitalizzazione della DIB, l'Occidente non sarebbe in grado di sostenere un conflitto ad alta intensità. Questo deficit impatta direttamente la capacità di deterrenza e la credibilità delle garanzie di sicurezza. Per la Cina e la Russia, questo scenario offrirebbe opportunità per espandere la propria influenza, ma non senza rischi: la Cina di Mitter deve bilanciare potenza militare e crescita economica, mentre la Russia di Gabuev rimane internamente fragile e dipendente da Pechino. La gestione delle crisi, specialmente nel Medio Oriente (Stroul), richiederebbe un approccio multilaterale che un'America isolazionista difficilmente potrebbe guidare. Conseguenze Marittime Sebbene non sia il focus primario di tutti gli articoli, le conseguenze marittime di un simile stravolgimento geopolitico e strategico sarebbero significative e pervasive. L'emergere di sfere d'influenza, come ipotizzato da Goddard, potrebbe portare a contestazioni dirette del principio della libertà di navigazione (FONOPs) e a un tentativo di controllo unilaterale di stretti e passaggi marittimi chiave da parte delle grandi potenze all'interno delle rispettive "zone". La stabilità delle rotte commerciali globali, da cui dipende l'economia mondiale, verrebbe seriamente minacciata. La continua crescita della potenza navale cinese, evidenziata da Mitter e da Campbell & Doshi, avrebbe implicazioni dirette per la sicurezza di Taiwan, del Mar Cinese Meridionale e si estenderebbe fino all'Oceano Indiano. L'obsolescenza della flotta USA e la sua ridotta capacità cantieristica, come denunciato da Brown, accentuerebbero questo squilibrio. La strategia navale statunitense, secondo Lim & Fearon e Campbell & Doshi, dovrebbe urgentemente virare verso una "triade convenzionale" con forze più elusive e resilienti, e incrementare la cooperazione industriale con alleati come Giappone e Corea del Sud per la produzione navale. L'Artico, data la crescente cooperazione sino-russa (implicita nell'analisi di Gabuev), assumerebbe una rilevanza strategica e marittima ancora maggiore, con l'apertura di nuove rotte e la potenziale militarizzazione. Nel Medio Oriente, l'instabilità nel Mar Rosso, legata alle azioni degli Houthi e all'influenza iraniana (Stroul), continuerebbe a perturbare il traffico marittimo attraverso il Canale di Suez, con ripercussioni sull'economia globale. La sicurezza marittima richiederebbe coalizioni internazionali robuste, ma un'America più isolazionista o transazionale potrebbe essere meno incline a guidarle o a parteciparvi con costanza, lasciando un vuoto che altri attori (o l'anarchia) potrebbero colmare. Le catene di approvvigionamento globali, già provate da crisi recenti, subirebbero ulteriori shock. Conseguenze per l’Italia Per l'Italia, un paese con una spiccata vocazione mediterranea e atlantica, le conseguenze di uno scenario come quello delineato sarebbero profonde e multidimensionali. La NATO, pilastro della sicurezza italiana, subirebbe una trasformazione radicale. Se l'impegno americano dovesse vacillare, come suggerito da Goddard, Mitchell e Woods, l'Italia si troverebbe di fronte alla necessità di contribuire in modo molto più sostanziale alla difesa europea, sia in termini di spesa militare sia di capacità operative. Questo avverrebbe in un contesto di crescente pressione per una maggiore autonomia strategica dell'Unione Europea, un processo in cui l'Italia dovrebbe definire attivamente il proprio ruolo. Il Mediterraneo e il Nord Africa, aree di primario interesse strategico per Roma, vedrebbero probabilmente un aumento dell'instabilità a causa di un disimpegno americano o di un approccio USA più erratico (Stroul, Woods). Ciò si tradurrebbe in maggiori rischi per la sicurezza energetica, un aumento dei flussi migratori irregolari e una potenziale recrudescenza del terrorismo. L'Italia sarebbe chiamata a un ruolo più attivo nella stabilizzazione della regione, possibilmente attraverso iniziative europee o coalizioni ad hoc. Sul piano economico, le politiche commerciali protezionistiche e transazionali della nuova amministrazione USA (Mitchell, Goddard) potrebbero danneggiare le esportazioni italiane e l'economia europea in generale. L'Italia dovrebbe navigare in un contesto economico globale "post-neoliberale" (Harris), cercando di proteggere i propri interessi nazionali e promuovendo al contempo soluzioni multilaterali ove possibile. Le relazioni con Cina e Russia diventerebbero ancora più complesse: l'Italia dovrebbe bilanciare gli imperativi economici con le esigenze di sicurezza, in un quadro in cui Washington potrebbe perseguire accordi bilaterali separati con Pechino o Mosca, scavalcando gli alleati europei. Questo scenario offrirebbe anche limitate opportunità: in un'Europa più autonoma e in un Mediterraneo più instabile, l'Italia potrebbe cercare di rafforzare il proprio ruolo diplomatico e di sicurezza, agendo come ponte tra diverse aree e promuovendo la stabilità regionale, ma ciò richiederebbe una visione strategica chiara e risorse adeguate. Conclusioni Il quadro che emerge dagli articoli di Foreign Affairs del Maggio/Giugno 2025 è quello di un mondo sull'orlo di una trasformazione potenzialmente radicale, innescata da un ipotetico ma non implausibile mutamento della politica estera americana e dalle perduranti dinamiche di competizione e ridefinizione dei rapporti tra grandi potenze. La conclusione principale è che l'ordine internazionale, già fragile, potrebbe affrontare la sua prova più dura, con il rischio concreto di una frammentazione in blocchi o sfere d'influenza e l'erosione delle istituzioni multilaterali che hanno garantito una relativa stabilità per decenni. Gli autori mettono in guardia contro i pericoli della miopia strategica, del transazionalismo fine a se stesso e del collasso della deterrenza, che potrebbero facilmente condurre a "guerre per sempre" o a errori di calcolo catastrofici, come evidenziato da Goddard riguardo al fallimento storico dei "Concerti tra potenze" e da Freedman sull'età dei conflitti interminabili. Di fronte a tale prospettiva, le raccomandazioni che si possono trarre, implicitamente o esplicitamente, dagli analisti sono chiare. Per l'Occidente e gli alleati degli Stati Uniti, inclusa l'Italia, diventa imperativo rafforzare la cooperazione multilaterale e prepararsi attivamente a scenari di disimpegno americano (Woods). Ciò significa investire seriamente nella difesa collettiva e nelle basi industriali nazionali e continentali (Brown, Campbell & Doshi), sviluppare una maggiore autonomia strategica, specialmente a livello europeo, e perseguire una diplomazia intelligente e proattiva, capace di offrire visioni costruttive per una futura coesistenza anche con attori oggi considerati avversari, come una Russia post-Putin (Gabuev, Mitchell). È fondamentale, come sottolineano Campbell e Doshi, una valutazione lucida e non ideologica delle minacce e delle opportunità, evitando sia il catastrofismo paralizzante sia l'eccessiva fiducia nelle proprie capacità unilaterali. Il futuro non è scritto: l'agency degli attori, la loro capacità di fare scelte strategiche informate e coraggiose, sarà determinante per navigare le turbolenze descritte e per plasmare un ordine globale meno pericoloso e più equo. Riferimento: Autori Vari, Foreign Affairs, Maggio/Giugno 2025, ForeignAffairs.com. © RIPRODUZIONE RISERVATA
OHi Mag Report Geopolitico nr. 134 Introduzione In un’era caratterizzata da una crescente instabilità geopolitica e da una rapida evoluzione tecnologica, la necessità per le potenze mondiali di ripensare le proprie strategie di difesa e la struttura delle proprie forze armate è diventata impellente. Gli Stati Uniti, in particolare, si trovano di fronte a un bivio, pressati dalla competizione con attori statali di pari livello, dalla proliferazione di minacce asimmetriche e dalla velocità con cui le innovazioni tecnologiche stanno ridisegnando il campo di battaglia. L'articolo "The Armed Forces of the Future", pubblicato da Michael Froman, Presidente del Council on Foreign Relations (CFR), il 23 maggio 2025, offre una lucida analisi di questa urgenza, delineando le direttrici fondamentali lungo le quali la trasformazione militare statunitense dovrebbe muoversi. Froman, basandosi su un incontro eccezionale con i vertici di tutte le forze armate USA, evidenzia un consenso diffuso sulla necessità di un cambiamento radicale, non solo incrementale, per affrontare le minacce moderne e mantenere la leadership americana. I Fatti Michael Froman, nel suo articolo, riporta i risultati di un significativo incontro tenutosi presso il Council on Foreign Relations a Washington D.C., una sorta di "think tank" strategico che ha visto la partecipazione congiunta dei Capi di Stato Maggiore di tutte le branche delle forze armate statunitensi: Esercito, Corpo dei Marines, Marina, Aeronautica, Forza Spaziale e Guardia Costiera. Un evento raro, sottolinea Froman, soprattutto in un contesto pubblico e non classificato, focalizzato sul futuro della strategia e della leadership militare USA. Da questo confronto è emersa con chiarezza una volontà condivisa di cambiamento radicale nelle modalità di combattimento, nella strutturazione delle forze e nella gestione degli appalti e delle acquisizioni. Froman identifica una "confluenza di eventi" che rende questo momento potenzialmente diverso dai precedenti tentativi di riforma: l'ascesa della Cina come "pacing threat" (la minaccia che detta il passo), il ruolo preponderante del settore privato nello sviluppo di tecnologie innovative con implicazioni militari, e un consenso emergente tra esecutivo, Congresso e settore della difesa sull'insostenibilità finanziaria e strategica dello status quo. L'analisi di Froman articola questa spinta riformatrice attorno a sei temi trasversali: 1. Ristrutturazione delle forze per le nuove sfide. Le forze armate devono adattarsi alle minacce che è più probabile debbano affrontare. L'esempio citato è quello del Corpo dei Marines, che, dopo decenni focalizzati sulla controinsurrezione e sul terrorismo, è a metà di un processo decennale di riprogettazione per enfatizzare capacità anfibie adatte a operazioni contro avversari di pari livello in acque litoranee, un chiaro riferimento alla Cina. 2. Dispiegamento delle forze nei teatri prioritari. Si ripropone la questione se gli Stati Uniti possano o debbano ridurre la propria attenzione sull'Europa o sul Medio Oriente per ribilanciarsi maggiormente verso l'Indo-Pacifico. Due terzi delle forze da combattimento attive dei Marines operano già in quest'area. Tuttavia, le priorità di postura a lungo termine non sempre si allineano con le crisi attuali, come dimostra il ridispiegamento di un gruppo d'attacco di portaerei dall'Indo-Pacifico per supportare le operazioni nel Comando Centrale contro gli Houthi e in difesa di Israele. 3. Nuova dinamica tra militare e settore privato. Startup, aziende di tecnologia per la difesa e nuovi appaltatori stanno guidando lo sviluppo di nuove capacità. Tradizionalmente, il Pentagono emetteva requisiti dettagliati e gli appaltatori costruivano secondo tali specifiche, un processo che poteva richiedere dai sei ai dieci anni per una piattaforma complessa, rendendola potenzialmente obsoleta al momento del dispiegamento. Ora, il ritmo del cambiamento tecnologico è accelerato, con gran parte dell'innovazione (droni, Intelligenza Artificiale) proveniente dal settore privato. Le forze armate cercano di integrare rapidamente queste tecnologie. La chiave, suggerisce Froman, potrebbe risiedere nella combinazione di piattaforme autonome e armi tradizionali, come l'Aeronautica prevede di fare con il bombardiere B-21, il caccia F-47 e i velivoli da combattimento collaborativi non pilotati (CCA). Sistemi come il proposto scudo missilistico "Golden Dome" del Presidente Trump, in cui la Space Force avrà un ruolo centrale, si baseranno su architetture aperte e interoperabili. L'Esercito sta testando tecnologie emergenti sul campo, come una brigata da combattimento mobile equipaggiata con droni in Europa che si è dimostrata il 300% più letale, ma tali progetti pilota necessitano di essere scalati a livello interforze. 4. Cambiamento fondamentale nel processo di bilancio e finanziamento. Vi è una forte richiesta di flessibilità per spostare fondi tra sistemi diversi, di bilanci pluriennali anziché risoluzioni di bilancio a breve termine ripetute, e della capacità di cancellare programmi obsoleti. L'Esercito sta mostrando volontà di abbandonare sistemi iconici come l'Humvee e l'elicottero d'attacco Apache AH-64D. Tuttavia, la flessibilità negli appalti e finanziamenti affidabili richiedono il coinvolgimento del Congresso, data la sua supervisione e le dinamiche politiche legate agli investimenti nei distretti elettorali. 5. Stato della base industriale della difesa USA. Questa si è significativamente ridotta dalla fine della Guerra Fredda, con carenze di capacità che impattano tutte le forze, specialmente nel dominio marittimo. La Guardia Costiera, ad esempio, dispone di un solo rompighiaccio pesante operativo, il Polar Star, vecchio di cinquant'anni, mentre le questioni di sicurezza artica (interesse di Trump per la Groenlandia, autoproclamazione della Cina come "stato quasi-artico") richiedono maggiore efficacia. La capacità cantieristica totale della Cina è 200 volte superiore a quella disponibile per le forze armate USA. Sia il Presidente Biden che il Presidente Trump (con un recente ordine esecutivo) hanno affrontato questo divario, cercando riforme burocratiche e finanziamenti d'emergenza per snellire i processi di appalto e progettazione navale. Gli USA potrebbero beneficiare di partenariati e investimenti esteri da alleati come Giappone e Corea del Sud, ma i cambiamenti richiederanno anni a causa dei vincoli strutturali (mancanza di infrastrutture produttive e manodopera qualificata). 6. Investimento nel personale. Tutti i capi di stato maggiore concordano sull'importanza di reclutare, trattenere, promuovere, motivare e responsabilizzare i migliori uomini e donne. Ciò include addestramento, qualità della vita e percorsi di carriera. Vi sono segnali positivi, con un aumento dei reclutamenti e un incremento di fondi (8,5 miliardi di dollari nel "One Big Beautiful Bill" di Trump) per la manutenzione delle caserme, l'assistenza sanitaria militare e altre iniziative per la qualità della vita. Froman, tuttavia, esprime preoccupazione per il potenziale impatto negativo sul morale e sull'interesse delle future generazioni causato dal licenziamento di alti leader militari avvenuto all'inizio dell'anno, inclusi i due unici capi servizio donna e il secondo afroamericano a presiedere lo Stato Maggiore Congiunto. Conseguenze Geopolitiche Le trasformazioni delineate da Froman comportano profonde conseguenze geopolitiche. La designazione della Cina come "pacing threat" e il conseguente ribilanciamento strategico verso l'Indo-Pacifico segnalano una chiara priorità nella politica estera e di difesa statunitense. Questo spostamento potrebbe indurre Pechino a percepire un accerchiamento strategico, potenzialmente acuendo le tensioni nel Mar Cinese Meridionale, riguardo Taiwan e in altre aree di frizione. Allo stesso tempo, potrebbe rassicurare gli alleati regionali degli USA (Giappone, Corea del Sud, Australia, Filippine), spingendoli però anche a un maggiore impegno nella propria difesa. Un'eventuale riduzione dell'attenzione statunitense su Europa e Medio Oriente, sebbene mitigata dalla necessità di rispondere a crisi contingenti, potrebbe creare vuoti di potere o percepiti tali. In Europa, ciò potrebbe accelerare le iniziative per una maggiore autonomia strategica e un aumento della spesa per la difesa da parte dei membri della NATO, come già osservato dopo l'invasione russa dell'Ucraina. Per la Russia, una minore focalizzazione USA sull'Europa potrebbe essere vista come un'opportunità, sebbene la deterrenza NATO rimanga un fattore importante da considerare. Nel Medio Oriente, una postura USA meno assertiva potrebbe incoraggiare attori regionali come Iran e Turchia a espandere la propria influenza, e spingere alleati storici come Arabia Saudita e Israele a diversificare le proprie partnership di sicurezza. L'enfasi sull'integrazione di nuove tecnologie come IA e droni potrebbe innescare nuove corse agli armamenti, non solo con la Cina ma anche con la Russia e altre potenze emergenti, con implicazioni per la stabilità strategica e la proliferazione di sistemi d'arma avanzati. La competizione per la supremazia tecnologica diventerà un campo di battaglia geopolitico cruciale. Infine, l'aumentata attenzione alla sicurezza artica, stimolata anche dalle ambizioni cinesi, preannuncia una nuova arena di competizione geopolitica per risorse e rotte strategiche. Conseguenze Strategiche Dal punto di vista strategico, il cambiamento più significativo è il passaggio da un focus decennale sulla controinsurrezione e il controterrorismo a una preparazione per conflitti ad alta intensità contro avversari tecnologicamente avanzati ("near-peer"). Questa transizione richiede una dottrina militare rinnovata, nuove tattiche e un equipaggiamento radicalmente diverso. La capacità di proiettare potenza in ambienti contesi, specialmente in contesti litoranei e marittimi come quelli dell'Indo-Pacifico (grazie alla ristrutturazione dei Marines), diventa una priorità strategica. La rapidità dell'innovazione tecnologica guidata dal settore privato impone una revisione fondamentale dei processi di acquisizione e integrazione. La strategia di combinare piattaforme tradizionali con sistemi autonomi (come nel caso dei CCA dell'Air Force) mira a ottenere un vantaggio qualitativo e quantitativo ("mass affordable") rispetto agli avversari. Lo sviluppo di architetture aperte e interoperabili, come per lo scudo "Golden Dome", è strategico per garantire l'adattabilità futura e la possibilità di integrare rapidamente nuove tecnologie da fornitori diversi, inclusi gli alleati. La riforma del processo di bilancio e la volontà di cancellare programmi legacy, se attuate, libererebbero risorse cruciali per investire in capacità future. La flessibilità finanziaria diventa un imperativo strategico per rispondere dinamicamente all'evoluzione delle minacce e delle tecnologie. La revitalizzazione della base industriale della difesa è altrettanto strategica: senza una capacità produttiva adeguata, specialmente nel settore navale, la capacità degli USA di sostenere un conflitto prolungato o di rispondere a molteplici crisi simultanee sarebbe compromessa. La ricerca di partnership con alleati come Giappone e Corea del Sud per la cantieristica navale è una mossa strategica per mitigare questa vulnerabilità, ma richiede tempo. Infine, il riconoscimento del personale come "l'asset più importante" sottolinea che la superiorità tecnologica da sola non è sufficiente; la qualità, la motivazione e l'addestramento delle risorse umane rimangono un pilastro fondamentale della strategia di difesa. La preoccupazione di Froman sul morale del personale indica un potenziale rischio strategico se non gestito attentamente. Conseguenze Marittime Le conseguenze marittime della trasformazione militare statunitense sono particolarmente pronunciate. La ristrutturazione dei Marines per operazioni anfibie in acque litoranee è specificamente mirata a scenari di conflitto nell'Indo-Pacifico, dove la proiezione di potenza dal mare e il controllo di stretti e isole chiave sono vitali. Questo implica un rinnovato focus su navi anfibie, supporto logistico marittimo e capacità di operare in ambienti marittimi altamente contesi. Il ridispiegamento di gruppi d'attacco di portaerei, come quello della USS Carl Vinson, evidenzia la flessibilità della potenza navale ma anche le tensioni tra le priorità strategiche a lungo termine (Indo-Pacifico) e le esigenze operative immediate (Medio Oriente). La capacità di mantenere una presenza credibile in più teatri marittimi contemporaneamente sarà una sfida continua. La critica carenza nella base industriale della cantieristica navale, con la capacità cinese che sovrasta quella statunitense di 200 volte, rappresenta una vulnerabilità marittima di primaria importanza. Questo divario impatta la capacità di costruire nuove navi da guerra, sottomarini e navi di supporto al ritmo necessario, nonché di riparare e mantenere la flotta esistente. Le iniziative per snellire gli appalti e cercare cooperazione con alleati come Giappone e Corea del Sud sono tentativi di affrontare questo problema strutturale, ma i risultati non saranno immediati. La necessità di una maggiore capacità rompighiaccio, evidenziata dalla singola unità operativa della Guardia Costiera, è direttamente collegata alla crescente importanza strategica dell'Artico come nuova frontiera marittima. L'apertura di rotte di navigazione e l'accesso a risorse naturali rendono la presenza e la capacità operativa nell'Artico un imperativo marittimo. L'integrazione di droni operanti sott'acqua, in superficie e in aria rivoluzionerà la guerra navale, offrendo nuove capacità di sorveglianza, ricognizione, attacco e guerra anti-sottomarino, potenziando le piattaforme tradizionali e aumentando la persistenza e la portata delle operazioni marittime. La sicurezza delle linee di comunicazione marittime (SLOC) rimarrà una missione fondamentale, resa più complessa dalla proliferazione di minacce asimmetriche e dalla competizione tra grandi potenze. Conseguenze per l'Italia Le trasformazioni in atto nelle forze armate statunitensi, come descritte da Michael Froman, avranno inevitabili ripercussioni anche per l'Italia, sia come membro della NATO che come attore nel Mediterraneo Allargato. Un eventuale, anche parziale, disimpegno o una riduzione del focus statunitense sull'Europa, a favore dell'Indo-Pacifico, comporterebbe una maggiore responsabilità per gli alleati europei, Italia inclusa, nel garantire la sicurezza del fianco sud ed est dell'Alleanza. Questo potrebbe tradursi in richieste di aumento della spesa per la difesa, di un maggiore contributo alle missioni NATO e di un potenziamento delle capacità nazionali, specialmente in settori chiave come la sorveglianza marittima nel Mediterraneo, la difesa aerea e la prontezza delle forze terrestri. L'enfasi statunitense sull'integrazione di tecnologie avanzate (IA, droni, sistemi spaziali) e su architetture aperte potrebbe offrire opportunità per l'industria della difesa italiana. Se l'Italia saprà allineare i propri investimenti e sviluppi tecnologici a questi standard, potrebbe partecipare a programmi di cooperazione internazionale, rafforzando la propria base industriale e tecnologica e garantendo l'interoperabilità con il principale alleato. Le lezioni apprese dagli USA sulla necessità di riformare i processi di acquisizione, di investire nella base industriale e di valorizzare il personale militare sono altamente pertinenti anche per l'Italia. Il nostro Paese potrebbe trarre spunto da queste riflessioni per modernizzare le proprie forze armate, rendendole più agili, tecnologicamente avanzate e sostenibili. La cooperazione con alleati come Giappone e Corea del Sud nel settore navale da parte USA potrebbe anche suggerire all'Italia di esplorare simili partenariati strategici per rafforzare settori industriali chiave. Infine, la crescente instabilità nel Mediterraneo Allargato, potenzialmente esacerbata da un minore coinvolgimento diretto USA in alcune aree, richiederà all'Italia un ruolo ancora più proattivo nella gestione delle crisi, nella lotta al terrorismo e nella stabilizzazione regionale, mettendo ulteriormente alla prova le capacità della Marina Militare e delle altre forze. Conclusioni L'analisi di Michael Froman dipinge un quadro chiaro: le forze armate statunitensi sono a un punto di svolta, dovendosi confrontare con la necessità ineludibile di una trasformazione profonda per affrontare un contesto di sicurezza globale radicalmente mutato. La convergenza di opinioni tra i vertici militari sulla direzione di questo cambiamento è un segnale potente, ma le sfide – dalla competizione strategica con la Cina alla rapida obsolescenza tecnologica, dalla fragilità della base industriale alla cruciale gestione del capitale umano – sono imponenti e richiedono un impegno sostenuto e trasversale che coinvolga l'intero apparato statale, Congresso incluso. La strada indicata, focalizzata sulla ristrutturazione delle forze, sul dispiegamento prioritario, sull'integrazione accelerata della tecnologia proveniente anche dal settore privato, sulla riforma dei processi di bilancio e acquisizione, sulla rivitalizzazione della base industriale e sull'investimento nel personale, rappresenta una roadmap ambiziosa. Per l'Italia e per gli altri alleati europei, le riflessioni e le direzioni strategiche intraprese dagli Stati Uniti non sono semplici spettatrici, ma comportano implicazioni dirette e la necessità di un adattamento proattivo. È fondamentale che anche l'Europa acceleri i propri sforzi verso una maggiore responsabilità strategica, investendo in capacità moderne e interoperabili e rafforzando la cooperazione intra-europea e transatlantica. La preoccupazione di Froman per il morale del personale militare USA, a seguito di decisioni politiche controverse, funge da monito universale: la forza di qualsiasi apparato militare risiede, in ultima analisi, negli uomini e nelle donne che lo compongono. Riferimento: Froman, Michael, "The Armed Forces of the Future", Council on Foreign Relations (CFR.org), 23 Maggio 2025, https://www.cfr.org/article/armed-forces-future. © RIPRODUZIONE RISERVATA
OHi Mag Report Geopolitico nr. 133 Introduzione In un panorama globale sempre più multipolare e interconnesso, il concetto di "soft power" – la capacità di influenzare gli altri attraverso l'attrazione e la persuasione piuttosto che con la coercizione – assume un'importanza cruciale. All'interno di questa dinamica, la diplomazia culturale, e in particolare la restituzione dei beni culturali, emerge come uno strumento strategico di crescente rilevanza. Per l'America Latina, una regione profondamente segnata da secoli di estrazione coloniale e spoliazione culturale, il recupero del proprio patrimonio trafugato trascende il mero gesto legale o simbolico. Diventa un atto geopoliticamente significativo, un mezzo per riaffermare la sovranità nazionale, riscrivere narrazioni storiche imposte e rafforzare la propria identità e influenza sulla scena internazionale. Questo saggio, basandosi sull'analisi di Alice Velicogna, esplorerà come la restituzione dei tesori culturali stia rimodellando la diplomazia e il soft power latinoamericano, trasformando i beni culturali in veri e propri strumenti geopolitici. I Fatti raccontati L'articolo di Alice Velicogna, "Cultural heritage diplomacy: Latin American treasures as a tool of soft power", pubblicato il 27 maggio 2025, delinea con precisione il crescente impegno dei paesi latinoamericani nel recuperare il proprio patrimonio culturale illecitamente sottratto e disperso in musei e collezioni private di tutto il mondo, principalmente nel Nord Globale. Questa spinta si inserisce in un contesto più ampio, dove i dibattiti sulla giustizia storica, la decolonizzazione e la rettifica delle ingiustizie coloniali guadagnano sempre più trazione a livello globale. La restituzione dei beni culturali diventa così un potente veicolo per affrontare queste tematiche, permettendo agli Stati di correggere, almeno in parte, le ferite del passato, rafforzare la propria influenza globale e promuovere la cooperazione internazionale su nuove basi. Il quadro giuridico internazionale che regola la restituzione culturale si fonda principalmente su due strumenti chiave: la Convenzione UNESCO del 1970 sui mezzi per proibire e prevenire l'illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà di beni culturali, e la Convenzione UNIDROIT del 1995 sui beni culturali rubati o illecitamente esportati. Entrambe mirano a contrastare il traffico illecito e a facilitare il ritorno dei beni culturali rimossi illegalmente. Tuttavia, Velicogna sottolinea una limitazione significativa: nessuna delle due convenzioni è retroattiva, il che significa che non possono essere applicate ai beni sottratti prima della loro entrata in vigore. Questa lacuna esclude la stragrande maggioranza delle estrazioni avvenute durante l'era coloniale. Nonostante ciò, gli Stati latinoamericani non si sono arresi, ma hanno attivamente utilizzato i canali diplomatici, la pressione dell'opinione pubblica e accordi bilaterali per raggiungere i loro obiettivi. Esempi significativi includono i trattati firmati da Perù (1997; 2022), Bolivia (2001; 2006) e Nicaragua (2000; 2010) con gli Stati Uniti, dimostrando la volontà di perseguire vie alternative per assicurare il ritorno sicuro del proprio patrimonio. L'articolo presenta diversi casi studio emblematici. Il Messico, dal 2019, è impegnato in dispute con la Francia riguardo alla messa all'asta di reperti Aztechi e Maya in gallerie parigine, inquadrando tali eventi non solo come questioni legali ma come affronti morali e storici. Un precedente di grande risonanza è la lunga battaglia del Perù contro l'Università di Yale per la restituzione di migliaia di manufatti provenienti da Machu Picchu, scavati all'inizio del XX secolo da Hiram Bingham e portati negli Stati Uniti. Dopo anni di negoziati, nel 2012 Yale ha acconsentito alla restituzione e, aspetto cruciale, le parti hanno siglato un accordo per la creazione di un Centro Internazionale per lo Studio di Machu Picchu e della Cultura Inca a Cusco, in Perù. Questo caso evidenzia come i processi di restituzione possano evolvere in piattaforme per una cooperazione accademica e culturale a lungo termine. Un altro caso significativo menzionato è la restituzione di oltre 600 manufatti precolombiani dall'Italia all'Ecuador nel 2018, oggetti frutto di traffico illecito sequestrati dalle autorità italiane. Più recentemente, nel 2024, il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale (TPC) di Roma ha ufficialmente restituito nove reperti archeologici pre-ispanici all'Ambasciata di El Salvador in Italia. Questi oggetti, risalenti al Periodo Classico Tardo, erano stati importati illecitamente e detenuti in una collezione privata. Questi episodi, sottolinea Velicogna, illustrano una tendenza più ampia: i paesi latinoamericani stanno mobilitando con crescente efficacia canali diplomatici, opinione pubblica e forum multilaterali per reclamare i propri beni culturali. L'articolo analizza anche le sfide che persistono. Molti paesi del Sud Globale affrontano significative barriere strutturali, tra cui limitate capacità finanziarie e istituzionali per catalogare, conservare ed esporre i reperti restituiti. L'assenza di database nazionali completi e registri digitali complica l'identificazione e la rivendicazione del patrimonio saccheggiato. Inoltre, la resistenza da parte di alcuni musei, collezionisti e case d'asta continua a ostacolare i progressi, con argomentazioni che spaziano dalla legalità dell'acquisizione al concetto di "patrimonio universale" accessibile a tutti. Come risposta propositiva, Velicogna cita lo sviluppo del modello di "museo integrale" in America Latina – musei che fungono da centri comunitari, promuovono l'inclusione sociale e riflettono l'esperienza culturale vissuta da diverse popolazioni. Conseguenze Geopolitiche Le implicazioni geopolitiche della restituzione del patrimonio culturale sono profonde e multiformi. Come evidenziato da Velicogna, assicurarsi il ritorno dei manufatti culturali da musei stranieri e collezioni private aiuta le nazioni latinoamericane a riaffermare la propria "historical agency", ovvero la capacità di agire autonomamente sulla propria storia e narrazione, e a proiettare un'identità nazionale rinnovata, radicata nel patrimonio precoloniale e indigeno. Questo processo contribuisce a smantellare le narrazioni coloniali che per secoli hanno sminuito o cancellato le civiltà originarie. La restituzione rafforza l'immagine internazionale di questi Stati come difensori dei diritti culturali fondamentali, incluse le minoranze indigene, che spesso vedono in questi reperti una parte viva e sacra della loro identità. Posizionandosi come leader nella decolonizzazione globale degli spazi museali, i paesi latinoamericani accrescono la loro autorità morale e il loro peso diplomatico. Questo è particolarmente rilevante in un'epoca in cui la diplomazia culturale sta diventando una componente centrale della politica estera di molte nazioni. Inoltre, la restituzione di oggetti culturali può servire a riequilibrare, almeno simbolicamente, le relazioni asimmetriche tra i paesi latinoamericani e le ex potenze coloniali o altre nazioni più potenti del Nord Globale. Le negoziazioni sui ritorni del patrimonio sono spesso inserite in dinamiche geopolitiche più ampie che coinvolgono commercio, migrazione e aiuti allo sviluppo. In questo contesto, la restituzione può agire come un contrappeso simbolico a persistenti disuguaglianze strutturali, permettendo ai paesi latinoamericani di negoziare da una posizione di maggiore parità morale e culturale. La creazione di nuovi quadri bilaterali che legano la restituzione alla cooperazione culturale, come nel caso Perù-Yale, trasforma l'atto del ritorno in una relazione diplomatica sostenuta e reciprocamente vantaggiosa, aprendo canali di dialogo e collaborazione che vanno oltre il singolo oggetto. Conseguenze Strategiche Dal punto di vista strategico, la diplomazia del patrimonio culturale offre ai paesi latinoamericani vantaggi significativi. In primo luogo, rafforza la coesione sociale e l'identità nazionale. Il ritorno di oggetti culturalmente significativi può fungere da catalizzatore per un rinnovato orgoglio nazionale e per una più profonda comprensione della propria storia, specialmente tra le giovani generazioni. La valorizzazione del patrimonio indigeno e precoloniale contribuisce a costruire narrazioni nazionali più inclusive e rappresentative della diversità culturale della regione. In secondo luogo, proietta un'immagine internazionale specifica e positiva: quella di nazioni custodi della propria cultura, impegnate nella giustizia storica e nel rispetto dei diritti umani. Questa immagine può tradursi in un maggiore "soft power", migliorando la percezione del paese all'estero e facilitando il raggiungimento di altri obiettivi di politica estera, come l'attrazione di investimenti, turismo culturale e sostegno in sedi multilaterali. La strategia di legare la restituzione a forme di cooperazione culturale a lungo termine, come centri di ricerca congiunti o programmi di scambio, è particolarmente astuta. Trasforma potenziali contenziosi in opportunità di partenariato, costruendo ponti invece che muri. Questo approccio strategico non solo assicura il ritorno fisico degli oggetti, ma crea anche le condizioni per la condivisione di conoscenze, lo sviluppo di competenze locali nella conservazione e nella museologia, e un impegno diplomatico continuativo. Il modello del "museo integrale", menzionato da Velicogna, è esso stesso una strategia per affrontare le limitazioni infrastrutturali e, contemporaneamente, per rendere il patrimonio culturale uno strumento attivo di sviluppo sociale e inclusione. Conseguenze Marittime L'articolo di Alice Velicogna non si sofferma esplicitamente sulle conseguenze marittime dirette della restituzione dei beni culturali. Tuttavia, è possibile tracciare connessioni indirette. Storicamente, gran parte del traffico illecito di beni culturali, specialmente su lunghe distanze transoceaniche, ha coinvolto rotte marittime. Le navi sono state il principale veicolo per il trasporto di oggetti saccheggiati dalle Americhe verso l'Europa e altre parti del mondo durante l'epoca coloniale e anche in tempi più recenti attraverso reti criminali transnazionali. Le campagne di restituzione, rafforzando le norme internazionali e la cooperazione tra Stati (come dimostrano i sequestri operati dalle autorità italiane, spesso in porti o tramite indagini che intercettano spedizioni), contribuiscono indirettamente a una maggiore vigilanza e a un più efficace contrasto del traffico illecito di beni culturali via mare. Sebbene la restituzione riguardi beni già trafugati, il successo di queste iniziative e la crescente pressione internazionale possono avere un effetto deterrente sul futuro traffico, spingendo verso un maggiore controllo delle merci in transito nei porti e un più stretto monitoraggio delle attività sospette. Inoltre, la sensibilizzazione generata da questi casi può portare a una maggiore cooperazione tra autorità doganali e forze dell'ordine marittime a livello internazionale per intercettare tali traffici. La "marittimità" in questo contesto è quindi più legata alla prevenzione del futuro saccheggio che alle conseguenze dirette della restituzione di oggetti già all'estero. Conseguenze per l'Italia L'articolo di Velicogna mette in luce il ruolo positivo e proattivo dell'Italia in materia di restituzione di beni culturali, citando specificamente i casi di restituzione all'Ecuador e a El Salvador, grazie all'operato del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale (TPC). Questa posizione ha conseguenze significative per l'Italia. Innanzitutto, rafforza le relazioni diplomatiche e culturali dell'Italia con i paesi latinoamericani. Agendo come partner affidabile e rispettoso nella lotta al traffico illecito e nella promozione della giustizia storica, l'Italia si guadagna stima e fiducia, aprendo canali privilegiati per la cooperazione in altri settori (economico, scientifico, accademico). In secondo luogo, consolida l'immagine dell'Italia come nazione leader a livello globale nella tutela del patrimonio culturale. Avendo essa stessa un immenso patrimonio e una lunga storia di lotte contro il saccheggio dei propri beni, l'Italia possiede una credibilità unica in questo campo. L'efficacia del TPC è riconosciuta a livello internazionale e funge da modello per molti altri paesi. Questa leadership può essere spesa in consessi internazionali per promuovere standard più elevati e meccanismi più efficaci per la protezione e la restituzione dei beni culturali. Inoltre, questa politica può stimolare una riflessione interna anche in Italia sulla provenienza di alcuni reperti conservati nei propri musei, qualora vi fossero richieste pendenti o casi controversi non ancora risolti. Tuttavia, l'orientamento attuale, come descritto nell'articolo, è quello di un paese che agisce principalmente come restitutore di beni illecitamente transitati o detenuti sul proprio territorio, piuttosto che come detentore di grandi collezioni coloniali latinoamericane contestate. Infine, la cooperazione in questo settore può portare a iniziative congiunte di ricerca, restauro e formazione, ulteriormente arricchendo il panorama culturale italiano e latinoamericano. Conclusioni e Raccomandazioni La diplomazia del patrimonio culturale, come brillantemente illustrato nell'analisi di Alice Velicogna, si sta affermando come uno strumento di soft power di eccezionale efficacia per le nazioni dell'America Latina. Il recupero dei tesori culturali non è solo un atto di giustizia riparativa per le spoliazioni del passato, ma una strategia lungimirante per ridefinire la propria identità nazionale, rafforzare la coesione sociale e riposizionarsi con autorevolezza sulla scena geopolitica globale. Questo processo consente ai paesi latinoamericani di dialogare con le ex potenze coloniali e con il Nord Globale su un piano di maggiore parità morale, trasformando antiche rimostranze in nuove opportunità di cooperazione e comprensione reciproca. Per consolidare questi successi e ampliare ulteriormente la propria influenza, è raccomandabile che gli Stati latinoamericani continuino a investire nel rafforzamento dei quadri giuridici nazionali e internazionali, potenziando la capacità tecnica e finanziaria delle istituzioni preposte alla catalogazione, conservazione ed esposizione del patrimonio. Cruciale sarà intensificare la cooperazione regionale per presentare un fronte unito e sviluppare strategie condivise. Fondamentale, come suggerisce Velicogna, è l'integrazione piena delle prospettive e della partecipazione delle comunità indigene nei processi di restituzione, assicurando che le politiche siano etiche e rispettose dei loro diritti. Infine, sfruttare attivamente consessi internazionali come il Forum UE-America Latina sulla Diplomazia Culturale sarà essenziale per mantenere alta l'attenzione su questi temi e promuovere un dialogo basato sulla giustizia, la memoria e il rispetto reciproco, assicurando che il patrimonio culturale diventi sempre più un ponte per un futuro di relazioni internazionali più eque. Riferimento: Velicogna, Alice, "Cultural heritage diplomacy: Latin American treasures as a tool of soft power", IARI, 27 Maggio 2025. https://iari.site/2025/05/27/cultural-heritage-diplomacy-latin-american-treasures-as-a-tool-of-soft-power/. © RIPRODUZIONE RISERVATA
OHi Mag Report Geopolitico nr. 132 Introduzione Il panorama geostrategico globale è stato recentemente scosso da un evento bellico che, sebbene circoscritto regionalmente, proietta lunghe ombre sulle dottrine militari e gli equilibri di potere futuri. Stiamo parlando del presunto conflitto aereo su vasta scala tra Pakistan e India, avvenuto nella prima settimana di maggio 2025, come analizzato dettagliatamente da Hua Bin nel suo articolo "The DeepSeek moment for modern air combat – lessons from the Pakistan India air war", pubblicato il 12 maggio 2025 su substack.com. Questo scontro, definito il più grande combattimento aereo degli ultimi cinquant'anni, non ha solo visto una vittoria schiacciante e unilaterale da parte dell'aeronautica pakistana, ma ha soprattutto messo in luce la superiorità di un approccio sistemico e integrato, di matrice cinese, rispetto a una collezione, seppur tecnologicamente avanzata, di piattaforme occidentali e russe eterogenee. Le implicazioni di questa "lezione" asiatica risuonano profondamente, interrogando le fondamenta delle strategie di difesa e acquisizione occidentali. I Fatti Secondo il resoconto di Hua Bin, la guerra aerea tra Pakistan e India si è conclusa con un risultato sorprendentemente asimmetrico: l'aeronautica pakistana (PAF), equipaggiata con un ecosistema di armamenti cinesi, avrebbe inflitto perdite significative all'aeronautica indiana (IAF) senza subire alcuna perdita. Le perdite indiane riportate includono tre caccia francesi Rafale, un Sukhoi Su-30 di fabbricazione russa, un MiG-29, anch'esso russo, e un drone Heron di origine israeliana. Ciò che rende questo esito particolarmente scioccante, sottolinea l'autore, è la totale inefficacia del Rafale, un caccia dal costo unitario di 240 milioni di dollari, spesso osannato come il più avanzato jet da combattimento europeo. I suoi sofisticati missili aria-aria, Mica e Meteor, sarebbero stati ritrovati intatti tra i rottami, a testimonianza del fatto che i velivoli sono stati abbattuti prima ancora di poter ingaggiare il nemico. Il protagonista di questa vittoria pakistana è stato il caccia multiruolo cinese J-10C, acquisito dal Pakistan per soli 40 milioni di dollari per unità. Pur essendo un velivolo considerato "ben oltre il suo apice" nelle forze aeree cinesi (PLA), che dispongono di caccia di quinta generazione come il J-20 e il J-35 e stanno testando velivoli di sesta generazione, il J-10C si è dimostrato letale. L'articolo evidenzia che, sebbene in un combattimento ravvicinato (dogfight) il Rafale potrebbe teoricamente competere con il J-10C, la realtà del moderno combattimento aereo è un'altra. La chiave del successo pakistano, secondo Hua Bin, risiede nella forza del sistema d'arma cinese integrato. A differenza dell'India, che si affida a un "miscuglio" di armi provenienti da Francia, Russia, Israele e Stati Uniti, il Pakistan ha utilizzato una suite completa di sistemi da combattimento aereo cinesi, altamente integrati e sincronizzati. Questi includono:
La sconfitta indiana, conclude Bin, è il risultato della sua mancanza di un sistema di guerra aerea integrato. Armi singole, per quanto avanzate, non possono garantire la superiorità aerea senza l'integrazione con altri sistemi e datalink fluidi nell'attuale ambiente di combattimento informatizzato. Naturalmente, anche un addestramento e una pianificazione tattica carenti da parte indiana sono considerati fattori contribuenti. Questo evento è etichettato come il "momento DeepSeek" del mondo militare, paragonando l'impatto di questa dimostrazione tecnologica a quello avuto dall'intelligenza artificiale DeepSeek. Conseguenze Geopolitiche Le conseguenze geopolitiche di questo presunto scontro sono profonde e multidimensionali. In primo luogo, l'esito riscrive, almeno nella percezione immediata, gli equilibri di potere nel subcontinente indiano. Il Pakistan, tradizionalmente considerato militarmente inferiore all'India in termini quantitativi e di spesa, emerge da questo confronto con un prestigio rinnovato e una capacità di deterrenza potenziata. Al contrario, l'India subisce un duro colpo alla sua immagine di potenza regionale emergente, e la sua strategia di diversificazione delle acquisizioni militari, volta a non dipendere da un singolo fornitore, si rivela un tallone d'Achille in termini di integrazione sistemica. In secondo luogo, l'evento rappresenta un formidabile spot pubblicitario per l'industria della difesa cinese. Dimostrare che sistemi esportabili, e quindi tecnologicamente inferiori a quelli in dotazione alla PLA (l'autore stima un divario di una o due generazioni), possono sconfiggere piattaforme occidentali di punta come il Rafale, apre prospettive di mercato enormi per Pechino. Paesi del Medio Oriente, dell'Africa e di altre regioni potrebbero essere attratti dalla combinazione di efficacia, integrazione e costi competitivi offerta dalla Cina. L'Egitto, menzionato nell'articolo come potenziale acquirente del J-10C, potrebbe essere solo il primo di una lunga serie. In terzo luogo, viene messa in discussione la narrativa occidentale che vede l'India come un efficace "contrappeso" strategico alla Cina nell'Indo-Pacifico. L'autore dell'articolo è lapidario nel definire questa idea "solo rumore", suggerendo che l'India, con le sue attuali carenze sistemiche, difficilmente potrebbe rappresentare un ostacolo significativo per Pechino. Questo potrebbe indurre gli Stati Uniti e i loro alleati a ricalibrare le proprie aspettative e strategie nella regione. Infine, l'evento potrebbe innescare una riconsiderazione globale delle strategie di acquisizione della difesa. Le nazioni potrebbero dare priorità all'integrazione e alla coerenza sistemica piuttosto che alla mera sofisticazione tecnologica delle singole piattaforme. Per i paesi esportatori occidentali, come la Francia (produttrice del Rafale), si tratta di un campanello d'allarme che potrebbe impattare negativamente sulle future vendite e sulla reputazione dei loro prodotti, a meno che non dimostrino una capacità di integrazione sistemica pari o superiore a quella cinese. Conseguenze Strategiche Dal punto di vista strategico-militare, le lezioni di questa guerra aerea sono altrettanto significative. La più evidente è la validazione della dottrina della "guerra di sistemi" (system-of-systems warfare). L'era in cui la superiorità di una singola piattaforma poteva determinare l'esito di uno scontro sembra tramontata. Oggi, è l'architettura complessiva – che include sensori, effettori, reti di comunicazione e centri di comando e controllo – a fare la differenza. La capacità di creare una "kill chain" integrata, fluida e resiliente è diventata il fattore determinante. L'importanza critica del C4ISR (Comando, Controllo, Comunicazioni, Computer, Intelligence, Sorveglianza e Ricognizione) e dei datalink emerge con prepotenza. La capacità del Pakistan di utilizzare l'HQ-9 e lo ZDK-03 per rilevare e tracciare i bersagli, e di trasmettere questi dati in tempo reale ai J-10C tramite il Link 17 per ingaggi oltre il raggio visivo (BVR), ha neutralizzato il vantaggio teorico del Rafale in altri parametri. Questo sottolinea che la superiorità informativa e la capacità di networking sono moltiplicatori di forza essenziali. Il dominio del combattimento BVR, se supportato da una superiore consapevolezza situazionale e da missili a più lunga gittata (come il PL-15E), riduce drasticamente le opportunità per i combattimenti ravvicinati, un tempo considerati l'apice dell'abilità aerea. La tecnologia radar, in particolare l'adozione di AESA con materiali avanzati come il GaN, gioca un ruolo cruciale nel "vedere per primi". L'affermazione che il radar del J-10C possa rilevare il Rafale prima di essere a sua volta rilevato è un punto chiave. L'articolo suggerisce anche che la Cina potrebbe utilizzare i mercati di esportazione e i conflitti per procura come "terreni di prova" per le proprie tecnologie e dottrine, affinando i propri sistemi in condizioni operative reali, anche se con hardware di generazioni precedenti rispetto a quello della PLA. Questo fornisce a Pechino un prezioso feedback per lo sviluppo futuro. Infine, non va sottovalutato l'aspetto dell'addestramento e della dottrina. Sebbene l'articolo si concentri sull'hardware, accenna al fatto che "scarse capacità di addestramento e pianificazione tattica" da parte indiana abbiano contribuito alla sconfitta. Un sistema integrato, per quanto sofisticato, richiede personale altamente addestrato e una dottrina operativa che ne sfrutti appieno le potenzialità. Conseguenze Marittime Sebbene l'articolo di Hua Bin si concentri esclusivamente sul combattimento aereo, i principi evidenziati hanno importanti ricadute anche sul dominio marittimo. La "guerra di sistemi" è altrettanto, se non più, cruciale in mare, dove piattaforme diverse (navi di superficie, sottomarini, aviazione navale, droni marittimi, sistemi costieri) devono operare in maniera coordinata e sinergica. La superiorità informativa e la robustezza dei datalink sono fondamentali per le operazioni navali. Un sistema AWACS come lo ZDK-03, descritto con capacità di tracciare bersagli aerei inclusi quelli a bassa quota e stealth, possiede intrinsecamente anche capacità di sorveglianza marittima, potendo rilevare navi e coordinare attacchi anti-nave. La capacità di integrare le informazioni provenienti da tali piattaforme con i sistemi d'arma delle unità navali o dell'aviazione di pattugliamento marittimo è essenziale. Missili aria-aria a lungo raggio come il PL-15E, se imbarcati su caccia operanti da portaerei o da basi costiere, rappresentano una minaccia significativa per l'aviazione navale avversaria, potendo creare bolle di interdizione aerea (A2/AD) che limitano la libertà di manovra delle flotte nemiche. Analogamente, sistemi di difesa aerea integrati come l'HQ-9, se dispiegati lungo le coste, possono estendere la copertura difensiva sul mare, proteggendo asset navali e infrastrutture costiere vitali. La lezione pakistana sull'integrazione dei sistemi suggerisce che una marina dotata di piattaforme individualmente meno sofisticate, ma interconnesse da datalink efficienti e guidate da un C4ISR integrato, potrebbe prevalere su una marina avversaria con navi tecnologicamente superiori ma operanti in modo isolato o con scarsa interoperabilità. L'efficacia dei sistemi di comunicazione cinesi, come il Link 17 (e le sue versioni più avanzate usate dalla PLA), se estesa al dominio marittimo, potrebbe fornire un vantaggio decisivo nelle operazioni navali congiunte e combinate. La minaccia non risiederebbe solo nel singolo missile o nella singola nave, ma nell'intera rete che li connette e li dirige. Conseguenze per l’Italia Le implicazioni di questo scenario, sebbene apparentemente lontano, toccano da vicino anche l'Italia e la sua postura strategica e industriale. L'Italia, come membro della NATO e utilizzatrice di sistemi d'arma prevalentemente occidentali (europei e statunitensi), deve trarre insegnamenti da questa presunta debacle indiana. La prima lezione è un monito contro l'eccessiva fiducia nella superiorità tecnologica intrinseca delle singole piattaforme, se non inserite in un'architettura di sistema realmente integrata a livello nazionale e alleato. La "sconfitta" del Rafale, un caccia europeo di punta, dovrebbe stimolare una riflessione critica all'interno dell'industria della difesa europea, inclusa quella italiana che partecipa a programmi come l'Eurofighter Typhoon e guarda a futuri sistemi come il GCAP. È imperativo assicurare che questi sistemi siano non solo tecnologicamente avanzati, ma anche capaci di integrarsi fluidamente con un'ampia gamma di altri asset (radar terrestri, AWACS, sistemi di difesa aerea, unità navali) attraverso datalink sicuri e interoperabili. L'Italia dovrebbe quindi intensificare gli sforzi per rafforzare le proprie capacità C4ISR e di networking, assicurando che le diverse componenti delle Forze Armate possano operare come un'unica forza coesa e informatizzata. La dipendenza da standard di datalink come il Link 16 NATO deve essere accompagnata dalla consapevolezza che potenziali avversari stanno sviluppando sistemi proprietari (come quelli cinesi) che potrebbero offrire vantaggi in termini di sicurezza, larghezza di banda o integrazione IA. Sul piano industriale, l'ascesa di sistemi cinesi competitivi e integrati potrebbe rappresentare una sfida per le esportazioni italiane nel settore della difesa, specialmente in mercati non allineati. Diventa cruciale offrire non solo piattaforme valide, ma soluzioni "chiavi in mano" che includano l'integrazione sistemica e l'addestramento necessario. Infine, a livello strategico più ampio, la dimostrazione di forza cinese, anche attraverso un alleato come il Pakistan, rafforza la necessità per l'Italia di contribuire attivamente a una postura di difesa e deterrenza credibile dell'Alleanza Atlantica e dell'Unione Europea, tenendo conto della crescente sofisticazione tecnologica e sistemica di attori globali come la Cina, anche in teatri di diretto interesse italiano come il Mediterraneo Allargato e l'Africa. Conclusioni e Raccomandazioni L'analisi di Hua Bin sullo scontro aereo indo-pakistano del maggio 2025, per quanto basata su un evento la cui piena portata e dinamica restano da confermare da fonti multiple e indipendenti, offre una narrazione potente e un avvertimento cruciale: l'era del combattimento aereo (e, per estensione, bellico in generale) è dominata dalla "guerra di sistemi". La superiorità non risiede più unicamente nella sofisticazione tecnologica di una singola piattaforma, ma nella capacità di integrare sensori, effettori e nodi di comando in una rete coesa, reattiva e intelligente. Il "momento DeepSeek", come lo definisce l'autore, segnala un potenziale cambio di paradigma che l'Occidente non può permettersi di ignorare. Le nazioni occidentali, Italia inclusa, devono trarre da questo scenario, reale o simulato che sia nelle sue conseguenze immediate, alcune raccomandazioni strategiche urgenti. È fondamentale prioritizzare gli investimenti nell'integrazione sistemica, nei datalink avanzati, sicuri e interoperabili, e nelle capacità C4ISR. Le strategie di acquisizione dovrebbero favorire non solo la "migliore piattaforma", ma la "migliore architettura di sistema". L'addestramento congiunto e interforze, focalizzato sull'operatività in un ambiente network-centrico, deve diventare la norma. È altresì imperativo non sottovalutare la velocità con cui attori come la Cina stanno sviluppando e, come suggerisce l'articolo, testando sul campo sistemi integrati che sfidano la tradizionale supremazia tecnologica occidentale. Infine, coltivare un'industria della difesa nazionale ed europea capace di innovare in questi settori critici (IA per la difesa, sensoristica avanzata, cyber-sicurezza delle reti militari) è essenziale per mantenere un vantaggio qualitativo e una credibile capacità di deterrenza nel XXI secolo. Riferimento: Bin, Hua. "The DeepSeek moment for modern air combat – lessons from the Pakistan India air war," Substack (Hua Bin Oliver's Newsletter), 12 maggio 2025, https://huabinoliver.substack.com/p/the-deepseek-moment-for-modern-air. © RIPRODUZIONE RISERVATA
OHi Mag Report Geopolitico nr. 131 Introduzione In un momento di significativa turbolenza sia interna che internazionale per il Regno Unito, la nomina del Generale Sir Gwyn Jenkins a Primo Lord del Mare segna una svolta epocale per la Royal Navy. Per la prima volta nella sua lunga e gloriosa storia, un Royal Marine, un "soldato del mare", assume la guida professionale della Marina britannica. Questa decisione, confermata dal Ministero della Difesa, non è solo una curiosità storica, ma un evento carico di implicazioni strategiche e operative. Arriva in un frangente delicato, successivo alle dimissioni forzate del suo predecessore, l'Ammiraglio Sir Ben Key, a causa di uno scandalo personale, e alla vigilia della pubblicazione dell'imminente Strategic Defence Review (SDR). La scelta di Jenkins, figura con un percorso professionale eccezionalmente variegato che spazia dalle operazioni speciali alla politica di alto livello, suggerisce una volontà di cambiamento e una ricerca di leadership innovativa per affrontare le complesse sfide che attendono la Marina e la Difesa britannica nel suo complesso. I Fatti La notizia della nomina del Generale Sir Gwyn Jenkins a Primo Lord del Mare, e quindi Capo di Stato Maggiore della Royal Navy, ha colto molti di sorpresa, rappresentando una rottura con una tradizione secolare. Jenkins, la cui nomina è stata ufficializzata dal Ministero della Difesa (MoD), succederà a breve al Vice Ammiraglio Martin Connell, che ha ricoperto l'incarico ad interim. Questo cambio al vertice è stato accelerato dalle premature dimissioni dell'Ammiraglio Sir Ben Key. Inizialmente, il MoD aveva goffamente tentato di mascherare la situazione, attribuendo l'uscita di Key a "ragioni private", ma la stampa ha ben presto rivelato la verità: un'indagine per cattiva condotta legata a una relazione con una subordinata. Tale tempistica si è rivelata particolarmente infelice, data l'imminente pubblicazione della Strategic Defence Review (SDR), un documento cruciale che delineerà il futuro delle forze armate britanniche, rendendo urgente la nomina di un successore stabile. Il curriculum del Generale Jenkins è indubbiamente impressionante e atipico per un futuro capo della Marina. Commissionato nei Royal Marines nel 1990, ha accumulato oltre tre decenni di servizio distinto. Le sue prime esperienze includono il servizio presso il Commando Logistics Regiment, dispiegamenti con il 42 Commando in Irlanda del Nord e persino la partecipazione a competizioni di sci di fondo, a testimonianza di una versatilità non comune. Successivamente, la sua carriera ha preso una piega decisamente operativa e strategica: ha comandato la prestigiosa Special Boat Service (SBS), l'unità di forze speciali della Royal Navy specializzata in operazioni marittime e anfibie, e ha ricoperto ruoli operativi di alto livello in teatri complessi come l'Iraq e l'Afghanistan. Un passaggio significativo che denota la sua capacità di operare ai massimi livelli istituzionali è stato, nel 2012, l'incarico di Assistente Militare del Primo Ministro, allora David Cameron. Dopo aver completato l'Advanced Command and Staff Course nel 2015, Jenkins ha compiuto un salto ancor più inusuale, transitando in un ruolo di vertice della Funzione Pubblica come Vice Consigliere per la Sicurezza Nazionale presso il Cabinet Office. Questa esperienza diretta nel cuore della macchina governativa e della politica di sicurezza nazionale è rara per un ufficiale delle forze armate. Nel 2017, è tornato a un ruolo più prettamente militare, assumendo il comando della 3 Commando Brigade. Durante questo periodo, è stato uno degli artefici della modernizzazione dei Royal Marines, contribuendo all'iniziativa "Future Commando Force", volta a trasformare i Marines in una forza più agile, letale e tecnologicamente avanzata. Tra il 2019 e il 2021, ha ricoperto un incarico più tradizionalmente "navale" (definito "dark blue" nel gergo britannico) come Assistant Chief of the Naval Staff, fornendogli una visione interna delle dinamiche della Marina. La sua ascesa è stata rapida: nel 2022 è stato promosso direttamente al grado di Generale (saltando il grado intermedio) e nominato Vice Capo di Stato Maggiore della Difesa (VCDS), una delle posizioni più elevate nelle forze armate britanniche. Contemporaneamente, ha mantenuto il ruolo cerimoniale di Commandant General dei Royal Marines. Tuttavia, la sua figura non è esente da controversie. Jenkins è stato chiamato a testimoniare nell'ambito dell'inchiesta sulle uccisioni illegali in Afghanistan (Afghan Unlawful Killings Inquiry), che indaga sulla cattiva condotta di membri delle SAS (Special Air Service) e sul suo possibile ruolo nel tentativo di occultare la verità su eventi accaduti circa quindici anni fa. Sebbene Jenkins abbia sempre difeso strenuamente le proprie azioni e continui a godere della fiducia e del sostegno dei ministri, questa vicenda e il persistente interesse mediatico potrebbero potenzialmente creare disturbo durante il suo mandato. Più recentemente, dall'agosto 2024, ha servito come Consigliere Strategico del Segretario di Stato per la Difesa, John Healey. In questo ruolo, è stato determinante nella negoziazione del patto di cooperazione nel settore della difesa tra Regno Unito e Germania, firmato nell'ottobre 2024, e del partenariato strategico di difesa tra Regno Unito e Norvegia, con negoziati formali avviati all'inizio del 2025. Questi successi diplomatici evidenziano la sua abilità nel muoversi negli ambienti internazionali e nel costruire alleanze strategiche. La sua selezione per il vertice della Royal Navy è avvenuta al termine di una competizione che vedeva quattro validi contendenti, e si dice che Jenkins abbia presentato la visione più chiara e coerente per il futuro del servizio. Le sfide che lo attendono sono immani: rivitalizzare una Royal Navy che opera in un contesto globale sempre più instabile, con un SDR alle porte che potrebbe imporre ulteriori vincoli e con finanziamenti cronicamente inadeguati. Problemi annosi come la carenza di fregate, la disponibilità dei sottomarini, le infrastrutture datate e le questioni relative al personale non potranno essere risolti immediatamente. Tuttavia, la sua leadership avrà l'opportunità di imprimere nuove direzioni, promuovere l'innovazione e attuare riforme. Sarà necessaria un'abile guida per portare avanti programmi chiave come i sottomarini d'attacco SSN-AUKUS, le navi di supporto anfibio MRSS (Multi Role Support Ships), i cacciatorpediniere FADS/Type 83 e la trasformazione dell'aviazione navale. Parallelamente, dovrà bilanciare queste esigenze con la necessità di maggiori investimenti nel personale, nei droni, nelle tecnologie anti-drone e nell'incremento delle scorte di armamenti. Un aspetto particolarmente delicato sarà la gestione della tensione intrinseca tra le priorità dei Royal Marines e quelle del resto della Marina in termini di allocazione delle risorse. L'idea di un Marine alla guida della Marina susciterà perplessità in alcuni ambienti tradizionalisti. Ci sarà chi metterà in dubbio la qualifica di un uomo che pur non avendo mai comandato una nave guiderà un'intera flotta. Sebbene i Royal Marines siano parte integrante della Royal Navy, la natura degli incarichi ricoperti da Jenkins potrebbe farlo apparire come un "outsider" a molti ufficiali di marina. Paradossalmente, questo potrebbe rivelarsi un vantaggio, consentendogli di apportare idee nuove in una prospettiva originale e indipendente. La nomina di un Secondo Lord del Mare e di un Comandante della Flotta particolarmente capaci sarà cruciale, sebbene il Primo Lord del Mare abbia un coinvolgimento limitato nel controllo operativo quotidiano della Marina. Le sue responsabilità principali riguardano l'efficacia bellica, l'efficienza e il morale della Royal Navy, lo sviluppo delle politiche e delle capacità. Deve inoltre essere il volto pubblico della Marina negli ambienti politici e sociali, sostenere il potere marittimo e consigliare il governo e il Capo di Stato Maggiore della Difesa (CDS) sulle questioni navali. Il mix di esperienza in prima linea e acume strategico di Jenkins è relativamente raro, posizionandolo come una voce influente sulla politica di difesa e sicurezza. A differenza di molti suoi predecessori, Jenkins è già un "guerriero di Whitehall", avvezzo a lavorare con i politici ai massimi livelli, un'esperienza che potrebbe rivelarsi di enorme beneficio per la Royal Navy. Conseguenze Geopolitiche La nomina di Sir Gwyn Jenkins in un mondo definito "sempre più instabile" ha immediate conseguenze geopolitiche per il Regno Unito. In primo luogo, segnala agli alleati e agli avversari la volontà britannica di affrontare le sfide alla sicurezza con una leadership potenzialmente più eterodossa e pragmatica. La sua recente esperienza nella negoziazione di patti di difesa con Germania e Norvegia è emblematica di un Regno Unito che, post-Brexit, cerca di rafforzare i legami bilaterali e multilaterali in materia di sicurezza, specialmente in Europa settentrionale e nell'Artico, aree di crescente competizione strategica. La sua guida sarà cruciale nel dare concretezza a questi accordi e nel posizionare la Royal Navy come un partner credibile. Inoltre, la sua familiarità con il dossier AUKUS (il patto di sicurezza trilaterale con Australia e Stati Uniti incentrato sulla fornitura di sottomarini a propulsione nucleare all'Australia) sarà fondamentale. La riuscita di AUKUS è un pilastro della strategia "Global Britain" e richiede una gestione oculata e una cooperazione intensa. Jenkins, con la sua esperienza al VCDS, comprende le ramificazioni strategiche e industriali di tale impegno. La sua capacità di interfacciarsi efficacemente con gli omologhi americani e australiani sarà un fattore determinante. La controversia legata all'inchiesta sull'Afghanistan potrebbe, tuttavia, creare qualche imbarazzo a livello internazionale, specialmente se dovesse emergere nuova evidenza, ma la fiducia ministeriale di cui gode al momento sembra mitigare questo rischio. Infine, una Royal Navy rivitalizzata sotto la sua guida potrebbe consentire al Regno Unito di giocare un ruolo più assertivo nelle aree di crisi e di contribuire maggiormente alle operazioni NATO e alle coalizioni internazionali, rafforzando la sua influenza geopolitica. Conseguenze Strategiche Sul piano strategico, l'arrivo di Jenkins è intrinsecamente legato all'imminente Strategic Defence Review. La sua visione "chiara e coerente" per il futuro del servizio, che gli è valsa la nomina, dovrà ora tradursi in concrete linee d'azione all'interno dell'SDR. La sua esperienza come Vice Consigliere per la Sicurezza Nazionale e come VCDS gli conferisce una comprensione profonda dei meccanismi di Whitehall e delle priorità interforze, qualità essenziali per difendere il budget e le capacità della Royal Navy in un contesto di risorse limitate. È probabile che la sua leadership spinga per un'accelerazione dell'iniziativa "Future Commando Force", integrando ulteriormente le capacità dei Royal Marines con quelle della flotta e delle altre forze armate, in linea con i moderni concetti di guerra multi-dominio. La gestione dei grandi programmi di acquisizione sarà strategica: SSN-AUKUS, MRSS e FADS/Type 83 non sono solo progetti industriali, ma strumenti di proiezione di potenza e di deterrenza. Jenkins dovrà assicurare che questi programmi procedano, bilanciando gli investimenti con la necessità di modernizzare le capacità esistenti, in particolare nel campo dei droni, delle tecnologie anti-drone e delle scorte di munizioni – lezioni apprese dai recenti conflitti. La sua provenienza dai Marines potrebbe portare a una maggiore enfasi sulle capacità di proiezione di forza dal mare e sulle operazioni litoranee, aspetti sempre più rilevanti negli scenari geostrategici attuali. La sua abilità come "guerriero di Whitehall" sarà messa alla prova nel garantire che la strategia marittima britannica sia adeguatamente finanziata e integrata nella più ampia strategia di sicurezza nazionale. Conseguenze Marittime Internamente alla Royal Navy, la nomina di un Royal Marine solleva interrogativi e apre a possibilità. La "costernazione in alcuni ambienti" e la percezione di Jenkins come "outsider" da parte di alcuni ufficiali navali sono reali. La sua mancanza di esperienza diretta nel comando di una nave da guerra potrebbe essere vista come un handicap. Tuttavia, questa stessa distanza potrebbe permettergli di affrontare problemi radicati – come la carenza di fregate, la bassa disponibilità dei sottomarini e le inefficienze infrastrutturali – con una prospettiva nuova e scevra da condizionamenti corporativi. La sua priorità sarà quella di migliorare l'efficacia bellica, l'efficienza e il morale. La tensione storica tra Royal Marines e il resto della Marina riguardo alla prioritizzazione delle risorse sarà un banco di prova immediato. Jenkins dovrà dimostrare di essere il Primo Lord del Mare di tutta la Royal Navy, bilanciando le esigenze anfibie con quelle della flotta di superficie, sottomarina e dell'aviazione navale. La trasformazione dell'aviazione navale, l'integrazione di sistemi senza pilota e la cibernetica navale richiederanno una leadership visionaria. La sua esperienza nella SBS e nella 3 Commando Brigade potrebbe portare a una maggiore enfasi sull'innovazione, sull'agilità e sull'adozione di nuove tecnologie a livello tattico e operativo. Sarà fondamentale che si circondi di un Secondo Lord del Mare e di un Comandante della Flotta competenti e rispettati, capaci di gestire le operazioni quotidiane e di fare da ponte con il corpo ufficiali. Conseguenze per l’Italia Sebbene l'articolo non menzioni direttamente l'Italia, le conseguenze di questa nomina e delle future direzioni della Royal Navy possono essere estrapolate. In primo luogo, come membro chiave della NATO, una Royal Navy più efficiente, moderna e strategicamente focalizzata sotto Jenkins andrebbe a beneficio della postura marittima complessiva dell'Alleanza, inclusa quella nel Mediterraneo, un'area di primario interesse strategico per l'Italia. La Marina Militare Italiana e la Royal Navy collaborano frequentemente in esercitazioni e operazioni NATO. Un partner britannico più capace e con una visione chiara rafforza l'interoperabilità e l'efficacia congiunta. Le recenti iniziative di Jenkins nel forgiare patti di difesa bilaterali (Germania, Norvegia) potrebbero indicare un approccio britannico più proattivo alla cooperazione europea in materia di difesa, da cui anche l'Italia potrebbe trarre spunti o opportunità di collaborazione, specialmente su sfide comuni come la sicurezza marittima, la lotta ai traffici illeciti e la stabilità regionale. Se Jenkins riuscirà a spingere per una maggiore integrazione di droni e tecnologie autonome, ciò potrebbe stimolare ulteriori sinergie industriali e operative con nazioni alleate come l'Italia, che sta anch'essa investendo in questi settori. La gestione di programmi complessi come SSN-AUKUS, sebbene specifico, potrebbe offrire lezioni sulla cooperazione industriale e tecnologica a lungo termine. Infine, la visione di Jenkins per la "Future Commando Force", incentrata su unità più piccole, agili e tecnologicamente avanzate, potrebbe offrire un modello di interesse per l'evoluzione delle capacità anfibie italiane e di altre marine europee. Conclusioni La nomina del Generale Sir Gwyn Jenkins a Primo Lord del Mare è indiscutibilmente un momento di svolta per la Royal Navy e, per estensione, per la Difesa britannica. Arriva in un periodo di forte incertezza globale e di sfide interne significative per le forze armate del Regno Unito. La sua carriera, che combina un'eccezionale esperienza operativa nelle forze speciali e nei Royal Marines con ruoli di altissimo livello nell’area decisoria in campo politico e strategico e nella pubblica amministrazione, lo dota di un bagaglio di competenze unico per affrontare questo compito erculeo. Le raccomandazioni per il suo mandato sono implicite nelle sfide stesse: dovrà navigare con abilità le complesse dinamiche di Whitehall per assicurare le risorse necessarie alla modernizzazione della flotta e del personale; dovrà sanare le fratture interne e unire la Marina sotto una visione comune, dimostrando di essere il leader di tutti, non solo dei Marines; dovrà guidare l'innovazione tecnologica, in particolare nell'ambito dei sistemi autonomi e della guerra asimmetrica, per garantire che la Royal Navy mantenga un vantaggio qualitativo. Sarà cruciale che riesca a tradurre la sua visione strategica in capacità operative tangibili, rafforzando il ruolo del Regno Unito come potenza marittima globale e partner affidabile per i suoi alleati, inclusa l'Italia. Il successo del suo mandato dipenderà dalla sua capacità di essere tanto un riformatore audace quanto un abile gestore delle delicate transizioni che attendono la Royal Navy. Riferimento. Redazione di Navy Lookout, Royal Marine, General Sir Gwyn Jenkins appointed First Sea Lord, Navy Lookout, 15 maggio 2025, https://www.navylookout.com/royal-marine-general-sir-gwyn-jenkins-appointed-first-sea-lord/ © RIPRODUZIONE RISERVATA
OHi Mag Report Geopolitico nr. 130 Introduzione L'instabilità cronica nel Kashmir amministrato dall'India ha conosciuto un nuovo, tragico capitolo con il brutale attacco avvenuto nella valle di Baisaran, vicino a Pahalgam. Questo evento, che ha scosso una regione già segnata da decenni di conflitto, ha immediatamente riacceso le tensioni tra India e Pakistan. Tuttavia, mentre la narrativa ufficiale indiana ha prontamente puntato il dito contro il vicino rivale, attribuendo la responsabilità a gruppi militanti sostenuti da Islamabad, emergono voci critiche che invitano a una riflessione più profonda e scomoda. L'analisi di Ishaal Zehra, pubblicata su The Interpreter, si inserisce in questo filone, sfidando la versione semplicistica degli eventi. Zehra non nega la tragedia, ma la inquadra primariamente come una grave falla nella sicurezza indiana, inserita in un contesto più ampio di politiche repressive e irrisolte questioni politiche che affliggono il Kashmir, suggerendo che la frettolosa accusa al Pakistan serva più a mascherare debolezze interne che a perseguire la verità. I fatti L'analisi delle recenti tensioni tra India e Pakistan, specialmente alla luce dell'attacco di Pahalgam del 22 aprile e della successiva "Operazione Sindoor" indiana, deve necessariamente partire da una comprensione più profonda del contesto, come offerto dalla prospettiva di Ishaal Zehra. Prima di questi eventi, il periodo dal 2 maggio era stato caratterizzato da una relativa calma lungo la Linea di Controllo, una "stabilità instabile" in cui il possesso dell'arma atomica da entrambe le parti sembrava imporre una cautela che, pur tra tensioni latenti, tendeva a favorire meccanismi di de-escalation. Tuttavia, gli avvenimenti recenti hanno stravolto questo fragile equilibrio, precipitando la regione in una crisi aperta e pericolosa. L'articolo di Ishaal Zehra offre una lente critica fondamentale per interpretare l'attacco di Pahalgam. Zehra non lo considera un semplice atto di terrorismo, ma un evento che getta ombre inquietanti sull'efficacia dell'apparato di sicurezza indiano. Sottolinea il paradosso di un attacco così audace, condotto con apparente impunità in un'area pesantemente militarizzata e sorvegliata. L'autrice traccia un parallelo con l'attentato di Pulwama del 2019, suggerendo una possibile ripetizione di fallimenti dell'intelligence e una mancanza di responsabilità sistemica. Secondo Zehra, invece di un'approfondita introspezione, la reazione indiana è stata quella di additare immediatamente il Pakistan e il gruppo The Resistance Front (TRF), che peraltro ha negato il proprio coinvolgimento. Questa pronta attribuzione di colpa viene vista da Zehra come una "narrativa conveniente", utile a Nuova Delhi per deviare l'attenzione da proprie mancanze interne, consolidare il consenso e ottenere solidarietà internazionale, il tutto basandosi su prove che l'autrice giudica deboli e non tracciabili. Zehra spinge l'analisi oltre, individuando le radici dell'instabilità nelle politiche indiane in Kashmir: l'eccessiva militarizzazione, le presunte violazioni dei diritti umani, e le modifiche costituzionali come l'abolizione dell'articolo 370, che avrebbero alimentato un profondo senso di alienazione nella popolazione locale, trasformando, a suo dire, la lotta al terrorismo in una vera e propria "occupazione". È in questo scenario, già teso e gravido di recriminazioni, che si è consumata la drammatica escalation. Le affermazioni iniziali di una fase priva di scontri militari su larga scala sono state brutalmente smentite dall'"Operazione Sindoor", lanciata dall'India tra il 6 e il 7 maggio. Questa operazione, con incursioni aeree e missilistiche contro nove presunti siti terroristici in territorio pakistano e nel Kashmir amministrato da Islamabad (specificamente a Muzaffarabad, Kotli e Bahawalpur), ha rappresentato un salto di qualità nelle ostilità, ben oltre le consuete schermaglie lungo la linea di confine. L'India ha giustificato questa azione come una rappresaglia mirata per l'attacco di Pahalgam, un'operazione "concentrata, misurata e priva di intenzioni di escalation" volta a colpire infrastrutture di gruppi come Lashkar-e-Taiba, Jaish-e-Mohammed e Hizbul Mujahideen, con l'obiettivo dichiarato di "fare giustizia" per le vittime. La reazione del Pakistan non si è fatta attendere. Islamabad ha condannato quelli che ha definito "attacchi vigliacchi", denunciando la morte di 31 civili, tra cui bambini, e il danneggiamento di una moschea, e ha rivendicato il diritto di rispondere. Fonti pakistane hanno dichiarato di aver abbattuto diversi caccia indiani – si parla di almeno tre velivoli, due Rafale e un Su-30MKI o MiG-29 – utilizzando i propri caccia J-10C armati con missili cinesi PL-15E, e di aver risposto con fuoco d'artiglieria. L'India, da parte sua, non ha confermato le perdite. È importante notare che questa escalation militare era stata preceduta da una serie di misure ritorsive non militari da parte indiana, quali la sospensione dei visti, la dichiarazione di persona non grata per il Ministro della Difesa pakistano, il blocco delle importazioni di petrolio e delle comunicazioni postali, la chiusura dei porti e dello spazio aereo alle entità pakistane e, in modo particolarmente significativo, la sospensione del Trattato delle Acque dell’Indo. Il fattore nucleare, che in precedenza sembrava spingere verso una gestione cauta delle crisi, ora amplifica enormemente la gravità della situazione. Il rischio incalcolabile di un conflitto tra due potenze nucleari è aumentato vertiginosamente, specialmente considerando che l'India ha condotto attacchi significativi ben all'interno del territorio pakistano, una mossa che già nel 2019 (crisi di Balakot) aveva portato la regione sull'orlo di un conflitto più ampio. La portata dell'"Operazione Sindoor" appare persino maggiore. Entrambe le nazioni si sono spinte pericolosamente vicino al baratro, manifestando un evidente eccessiva pressione psicologica, praticata al fine di cercare di ottenere un risultato vantaggioso senza rendersi conto che spingendo in avanti gli eventi si poteva giungere sull'orlo di un conflitto attivo. Di conseguenza, la de-escalation, che prima poteva essere vista come una tendenza intrinseca alla dinamica nucleare, è ora diventata un imperativo urgente, spinto dalla comunità internazionale (con appelli da parte di USA e ONU) e dalla speranza che la consapevolezza delle catastrofiche conseguenze di un'ulteriore escalation prevalga. Le dichiarazioni indiane su un'azione "priva di intenzioni di escalation" e la risposta inizialmente definita "difensiva" dal Pakistan potrebbero essere interpretati come flebili segnali di un tentativo di non superare una soglia critica, ma la situazione rimane estremamente volatile e imprevedibile. L'amministrazione statunitense, in linea con la politica estera statunitense tradizionale, ha probabilmente contribuito a gestire e contenere specifiche crisi tra India e Pakistan, come già avvenuto nel 2019. Tuttavia, attribuirgli il merito esclusivo o primario per una generale "tranquillizzazione" sarebbe fuorviante. La dinamica tra India e Pakistan è complessa e influenzata da molti fattori, tra cui il più importante è la logica della deterrenza nucleare e i calcoli strategici interni ad entrambi i paesi. La situazione rimane intrinsecamente instabile, e periodi di relativa calma sono spesso intervallati da picchi di tensione. La "tendenza alla de-escalation" non è più un processo da osservare passivamente, ma un obiettivo che richiede sforzi diplomatici intensi e una ferma volontà politica da entrambe le parti, sotto la forte pressione della comunità internazionale, che svolge quindi un ruolo essenziale nel calmare la situazione tra i due contendenti. In questo quadro, le analisi come quella di Ishaal Zehra, che puntano il dito sulle cause profonde del malcontento e sulle dinamiche interne, specialmente in Kashmir, rimangono fondamentali per comprendere la complessità del conflitto e le immense difficoltà nel trovare soluzioni durature, anche una volta che questa fase acuta della crisi sarà, si spera, superata. Le conseguenze geopolitiche di questa dinamica, secondo l'analisi di Zehra, sono estremamente negative. La rapida accusa al Pakistan, amplificata dai media e presentata alla comunità internazionale, sebbene possa portare vantaggi tattici a breve termine per l'India, perpetua un ciclo di ostilità che impedisce qualsiasi progresso verso una soluzione negoziata del conflitto indo-pakistano sul Kashmir. Ogni incidente diventa un pretesto per rafforzare le posizioni più intransigenti da entrambe le parti, minando la fiducia e rendendo il dialogo quasi impossibile. Questa retorica anti-pakistana costante, sostiene Zehra, "influenza la psiche pubblica, coltiva la paranoia e semina semi di ostilità permanente", rischiando di approfondire l'instabilità in una regione già nuclearizzata e altamente volatile come l'Asia meridionale. A livello internazionale, mentre l'India cerca di consolidare la propria immagine di vittima del terrorismo transfrontaliero, la mancanza di prove credibili e verificabili, unita alle crescenti critiche sulle sue politiche interne in Kashmir, rischia di erodere la sua credibilità globale nel lungo periodo. La riduzione di una tragedia complessa a una mera voce nel "punteggio geopolitico" tra India e Pakistan, avverte Zehra, impedisce di affrontare le vere cause del conflitto. Sul piano strategico, l'analisi di Ishaal Zehra evidenzia principalmente le debolezze e le contraddizioni della strategia indiana in Kashmir. Il fallimento nel prevenire attacchi come quello di Pahalgam, nonostante l'imponente dispiegamento militare e di intelligence, suggerisce lacune significative nella raccolta di informazioni, nell'analisi o nella capacità di risposta rapida. La scelta strategica di rispondere a tali fallimenti non con una revisione interna e riforme, ma con l'immediata esternalizzazione della colpa verso il Pakistan, sebbene possa servire a consolidare il fronte interno e a distogliere l'attenzione pubblica, si rivela strategicamente controproducente nel lungo termine. Impedisce infatti di correggere le vulnerabilità reali dell'apparato di sicurezza e rischia di creare un falso senso di sicurezza basato sulla demonizzazione del nemico esterno. Inoltre, la strategia complessiva di Nuova Delhi nel Kashmir, caratterizzata da forte militarizzazione, repressione del dissenso e politiche percepite come volte a modificare l'identità della regione, secondo Zehra, non riesce a estirpare le radici della militanza. Al contrario, l'alienazione crescente della popolazione locale, privata di diritti e dignità, potrebbe paradossalmente fornire terreno fertile per il reclutamento da parte di gruppi estremisti e rendere più difficile la raccolta di intelligence umana affidabile. La strategia indiana, quindi, rischia di essere intrappolata in un circolo vizioso in cui le misure di sicurezza repressive alimentano il risentimento che a sua volta giustifica ulteriore repressione, senza affrontare le questioni politiche fondamentali. Le implicazioni tecnologiche e strategiche degli scontri, qualora le affermazioni pakistane sull'abbattimento di moderni caccia indiani fossero confermate, sarebbero notevoli. Potrebbero mettere in discussione la presunta superiorità aerea convenzionale dell'India, evidenziare la crescente efficacia degli armamenti cinesi e la solidità della partnership sino-pakistana. Anche il commento attribuito a fonti russe, circa la scelta indiana di acquistare materiale francese anziché russo, aggiunge un ulteriore strato di complessità all'analisi geopolitica e delle dinamiche dell'industria della difesa globale. L'articolo di Ishaal Zehra si concentra esclusivamente sulle dinamiche terrestri e politiche del conflitto in Kashmir, una regione senza sbocco sul mare. Di conseguenza, non emergono dall'analisi conseguenze marittime dirette legate all'attacco di Pahalgam o alla più ampia situazione kashmira. Le tensioni tra India e Pakistan si manifestano principalmente lungo la Linea di Controllo (LoC) terrestre, attraverso scambi di artiglieria, infiltrazioni e, occasionalmente, scontri aerei. Sebbene entrambe le nazioni possiedano marine militari significative che operano nell'Oceano Indiano, il conflitto del Kashmir non ha, storicamente e attualmente, una dimensione marittima rilevante. Pertanto, basandosi strettamente sul contenuto del testo fornito, non è possibile delineare specifiche conseguenze marittime derivanti dai fatti e dalle analisi presentate da Zehra. La focalizzazione rimane saldamente ancorata alle questioni di sicurezza interna indiana, alle relazioni bilaterali terrestri e alle dinamiche politiche interne al Kashmir. Le conseguenze per l'Italia, data la natura regionale e specifica del conflitto trattato nell'articolo, sono principalmente indirette e si collocano nel quadro più ampio delle relazioni internazionali e della stabilità globale. L'Italia, come membro dell'Unione Europea e della comunità internazionale, segue con preoccupazione l'evolversi della situazione in Kashmir e le tensioni tra India e Pakistan, due potenze nucleari. Un'escalation del conflitto avrebbe ripercussioni negative sulla stabilità dell'Asia meridionale e, potenzialmente, sull'economia globale, ambiti in cui l'Italia ha interessi significativi, sia diplomatici che commerciali. Roma sostiene generalmente le posizioni dell'UE che invitano entrambe le parti alla moderazione, al dialogo bilaterale e al rispetto dei diritti umani. L'analisi di Zehra, mettendo in discussione la narrativa ufficiale indiana e sottolineando le questioni legate ai diritti umani e alle falle nella sicurezza, potrebbe contribuire a informare le valutazioni diplomatiche italiane e comunitarie sulla complessità della situazione, incoraggiando un approccio che vada oltre la semplice condanna degli atti terroristici e promuova un'analisi più approfondita delle cause sottostanti. L'Italia potrebbe essere coinvolta, attraverso i canali UE o ONU, nel sostenere iniziative volte a ridurre la tensione, a promuovere misure di fiducia tra India e Pakistan e a monitorare la situazione dei diritti umani nella regione. Conclusioni e Raccomandazioni In conclusione, l'analisi di Ishaal Zehra sull'attacco di Pahalgam, pubblicata su The Interpreter, offre una prospettiva critica e alternativa rispetto alla narrativa predominante. Sottolineando le gravi falle nella sicurezza indiana e contestualizzando l'evento all'interno delle politiche repressive e delle irrisolte questioni politiche del Kashmir, Zehra sfida l'immediata attribuzione di colpa al Pakistan. L'autrice argomenta che questo schema ricorrente di esternalizzazione della responsabilità serva più a mascherare le debolezze interne e a consolidare il consenso politico che a perseguire la verità e la giustizia. La vera soluzione, suggerisce Zehra, non risiede nell'intensificare la retorica ostile o la militarizzazione, ma nel coraggio di un'autocritica da parte di Nuova Delhi. Le raccomandazioni implicite ed esplicite che emergono dall'articolo sono chiare: l'India dovrebbe avviare un'indagine approfondita e trasparente sui fallimenti della sicurezza che hanno permesso l'attacco, tenendo responsabili i funzionari coinvolti. È necessario un riesame critico delle politiche adottate in Kashmir, affrontando le diffuse accuse di violazioni dei diritti umani e abbandonando quelle che vengono percepite come misure volte a modificare la demografia della regione. L'autrice invoca un ritorno al rispetto della dignità e dell'autonomia del popolo kashmiro, menzionando esplicitamente il diritto a un plebiscito come via per affrontare le cause profonde del conflitto. Solo attraverso un sincero ripensamento della propria strategia, un abbandono della postura ostile e un impegno a risolvere le questioni fondamentali, conclude Zehra, si potrà sperare di costruire una pace duratura e di contrastare efficacemente il flagello del terrorismo nella regione. Riferimento Ishaal Zehra, Kashmir: Why was India so quick to blame Pakistan?, The Interpreter (Lowy Institute), 2 Maggio 2025, https://www.lowyinstitute.org/the-interpreter/kashmir-why-was-india-so-quick-blame-pakistan © RIPRODUZIONE RISERVATA
OHi Mag Report Geopolitico nr. 129 Navigare le complessità di un mondo geoeconomico in trasformazione Introduzione Il panorama globale contemporaneo è caratterizzato da una profonda metamorfosi, in cui le tradizionali dinamiche di potere, prevalentemente incentrate sulla forza militare, stanno cedendo il passo a una nuova era: quella della geoeconomia. Questo concetto, come emerge chiaramente dall'analisi dei testi forniti, descrive l'uso strategico della forza economica – industria, finanza, tecnologia, risorse – da parte degli Stati per raggiungere obiettivi politici e di sicurezza nazionale. L'economia non è più solo un presupposto o una causa indiretta di conflitto, ma si configura come uno strumento diretto di potere e contesa. In un mondo segnato da crisi interconnesse – pandemica, climatico-ambientale, economico-sociale e geopolitica – la competizione tra nazioni si gioca sempre più sull'arena economica, ridefinendo l'ordine internazionale, frammentando la globalizzazione iper-liberista e "armando" le interdipendenze. Comprendere questa transizione è cruciale per interpretare le sfide attuali e future. I Fatti Descritti: La Transizione verso la Guerra Economica L'analisi dei documenti evidenzia una chiara transizione dalla guerra tradizionale a forme più pervasive di "guerra economica". Questo cambiamento è alimentato da molteplici crisi globali interconnesse – povertà, scarsità di risorse, dinamiche demografiche, un percepito declino occidentale e crisi del neocolonialismo – che generano instabilità e spingono l'economia e la finanza a diventare le principali arene di conflitto tra Stati. Gli strumenti principali di questa nuova era sono la Guerra Commerciale, volta a ottenere vantaggi commerciali, la Guerra Economica, mirata a indebolire il potenziale militare avversario tramite l'economia, e le Sanzioni Economiche, utilizzate come strumento di coercizione per indurre cambiamenti politici. L'efficacia di queste ultime, come sottolineato, segue "regole d'oro" specifiche legate a vulnerabilità, tempismo, obiettivi e impatto politico. Un aspetto centrale di questa dinamica è l'"imperialismo del dollaro" e la crescente spinta verso la "de-dollarizzazione". L'egemonia del dollaro USA, strumento di potere globale per influenzare l'economia mondiale e imporre supremazia, affronta sfide crescenti da attori come Russia, Cina e i BRICS. Parallelamente, il mondo sta entrando in una fase "post-globale", frammentata dalla sovrapposizione di crisi (geopolitica, come la guerra in Ucraina; economico-sociale post-pandemia; pandemica; ambientale). Questa frammentazione ha evidenziato la vulnerabilità delle Catene Globali del Valore (GVC) e incentivato il reshoring, ovvero il ritorno della produzione nei paesi d'origine o in aree geograficamente più vicine (nearshoring). Le politiche tariffarie aggressive, come quelle dell'amministrazione Trump, hanno accelerato questa riconfigurazione strategica delle supply chain. La globalizzazione a trazione finanziaria, pur avendo favorito alcuni paesi emergenti, ha spesso fallito nel distribuire equamente i benefici, mettendo sotto pressione le classi medie occidentali e alimentando frustrazione, sfiducia verso le élite e i governi, e favorendo l'ascesa del populismo. In questo contesto, la "guerra economica" diventa uno strumento primario, dove la potenza è legata più alla finanza e all'innovazione tecnologica (IA, droni, cyber, ciclo OODA) che alla sola forza militare, richiedendo sofisticate capacità di intelligence economica. L'economia si trasforma così in uno strumento diretto di dominio e potere, in uno scenario in cui, secondo alcune interpretazioni, non esistono veri alleati stabili, e le crisi finanziarie passate possono essere lette come attacchi economici mirati. Le politiche commerciali statunitensi, specialmente sotto l'amministrazione Trump, sono state un fattore destabilizzante, generando incertezza e minando la prevedibilità delle relazioni internazionali, colpendo non solo la Cina ma anche alleati storici. Ciò ha provocato una crisi di fiducia persino nel debito sovrano americano e ha accelerato la frammentazione globale e la ristrutturazione delle supply chain verso la resilienza. Conseguenze Geopolitiche L'impatto geopolitico globale della geoeconomia è profondo e multiforme. Si assiste a un ridisegno dell'ordine internazionale, con un'intensificata competizione tra grandi potenze, esemplificata dalla rivalità USA-Cina. La frammentazione economica, in antitesi alla globalizzazione iper-liberista, porta alla formazione di blocchi economici contrapposti (Occidente vs. Sud Globale/Cina). L'interdipendenza, un tempo vista come garante di pace, viene "armata" ("weaponization"), trasformandosi in uno strumento di coercizione attraverso l'uso strategico delle dipendenze. Le istituzioni multilaterali (ONU, WTO) sono sfidate e indebolite da questo approccio unilaterale e dall'uso aggressivo di strumenti economici. La guerra in Ucraina ha agito da catalizzatore, evidenziando le divisioni interne all'Europa (tra "nuova" e "vecchia" Europa sulla strategia verso la Russia) e accrescendone la dipendenza strategica dalla NATO e dagli USA, ponendo interrogativi sulla sua futura autonomia. Emerge un mondo più multipolare e meno prevedibile, con attori come India, Brasile e Indonesia che guadagnano peso perseguendo strategie autonome. La globalizzazione non è finita, ma è "contaminata" da logiche di conflitto, protezione e autonomia strategica. L'inaffidabilità percepita di alcuni attori tradizionali, come Washington durante certe amministrazioni, può spingere paradossalmente alleati a ricalibrare con cautela i rapporti economici con potenze rivali come la Cina, in cerca di stabilità e prevedibilità. La fine della fiducia nel libero scambio come garante di pace, segnata anche dall'invasione russa dell'Ucraina, costringe in particolare l'Europa a confrontarsi con una realtà di insicurezza e competizione strategica. Conseguenze Strategiche Sul piano strategico, la geoeconomia ridefinisce la sicurezza nazionale, includendo intrinsecamente la sicurezza economica. Per gli Stati diventa prioritario costruire la resilienza, attraverso il controllo delle risorse critiche, la diversificazione delle filiere produttive e la protezione delle infrastrutture. La supremazia tecnologica assume un'importanza cruciale, così come l'integrazione degli strumenti economici nelle strategie complessive di sicurezza nazionale. La potenza di uno Stato dipende sempre più dalla sua forza economica, finanziaria e, soprattutto, dalla sua capacità di innovazione tecnologica continua. L'intelligence economica diventa fondamentale per anticipare minacce e cogliere opportunità. Le strategie di conflitto economico, pur apparendo meno dirette della violenza militare, possono avere conseguenze devastanti e sproporzionate sulle popolazioni civili. Questo spinge gli Stati a considerare la "sicurezza economica" come parte integrante della sicurezza nazionale, focalizzandosi sulla resilienza delle supply chain (energia, cibo, tecnologia) e sullo sviluppo di capacità economiche difensive e offensive. L'Europa, ad esempio, sta tentando di riorientare la propria economia verso una maggiore autonomia strategica, anche nel settore della difesa, ma affronta ostacoli come la debolezza industriale pregressa, alti costi energetici e dipendenze esterne. Il concetto di "Stato forte ed economia ordinata", derivante dall'ordoliberalismo tedesco, che propugna un mercato libero ma strettamente vincolato da regole imposte da uno Stato forte, continua a influenzare le politiche europee, sebbene con esiti controversi, specialmente per i paesi del Sud Europa, limitando talvolta la flessibilità e la capacità di risposta a crisi impreviste. La necessità di un "nuovo pensiero strategico" olistico, integrato e multidimensionale diventa imperativa. Conseguenze Marittime La dimensione marittima assume un'importanza cruciale nell'era geoeconomica. Il controllo delle rotte marittime (SLOCs), dei punti nodali come stretti e porti, delle risorse marine e la sicurezza delle catene di approvvigionamento via mare diventano elementi centrali. Il dominio marittimo si trasforma in un'arena fondamentale per esercitare influenza e coercizione geoeconomica. Strumenti come blocchi navali, sanzioni che isolano porti o creano "flotte ombra", il controllo strategico di rotte e chokepoints, e l'importanza dei porti come asset critici sono tutti elementi di questa dimensione. Le politiche tariffarie e l'incertezza che ne deriva influenzano i volumi e le rotte del commercio marittimo, aumentano la volatilità dei noli e accrescono l'importanza strategica di infrastrutture portuali efficienti e resilienti. Nonostante la digitalizzazione, il controllo delle rotte marittime, degli hub portuali e dei punti di snodo oceanici rimane cruciale per la gestione delle supply chain globali, con l'emergere di nuovi fronti di interesse strategico come l'Artico. Conseguenze per l’Italia Per l'Italia, le implicazioni sono particolarmente significative. Data la sua forte integrazione globale, la dipendenza dall'export e dall'energia, e la sua posizione strategica nel Mediterraneo, il paese è particolarmente esposto alle dinamiche geoeconomiche. La debolezza del tessuto manifatturiero (in parte eredità delle privatizzazioni), la carenza di investimenti in Ricerca & Sviluppo, la "fuga di cervelli" e la storica vulnerabilità agli shock finanziari rendono urgenti misure per rafforzare la resilienza economica e innovativa. La sicurezza e la prosperità dell'Italia richiedono una strategia nazionale integrata, focalizzata su resilienza, innovazione tecnologica e un ruolo attivo nell'Unione Europea. Il mercato del lavoro italiano ha mostrato dinamiche peculiari, come una "Great Reallocation" piuttosto che una "Great Resignation" nel 2021, seguita da un'inversione di tendenza nel 2022 a causa di shock esterni come l'aumento dei prezzi energetici e l'incertezza geopolitica. Persiste un mismatch tra domanda e offerta di competenze. L'economia italiana, fortemente esportatrice in settori chiave come macchinari, automotive e "Made in Italy", è particolarmente esposta a turbolenze commerciali e a politiche tariffarie aggressive, rendendo cruciale una risposta europea unitaria. L'Italia si trova spesso stretta tra le pressioni di grandi attori globali e le dinamiche interne all'UE, dovendo bilanciare l'impegno europeo per l'autonomia strategica con la storica alleanza atlantica e la tutela degli interessi nazionali. Conclusioni e Raccomandazioni Il mondo sta attraversando una fase di profonda transizione, caratterizzata dall'ascesa della geoeconomia come paradigma dominante nelle relazioni internazionali. La competizione tra Stati si manifesta sempre più attraverso strumenti economici, finanziari e tecnologici, in un contesto di crisi interconnesse e di crescente frammentazione dell'ordine globale. Le vecchie certezze sulla globalizzazione come motore di pace e prosperità diffusa sono state messe in discussione, e l'interdipendenza stessa è diventata un'arma. Per nazioni come l'Italia, fortemente integrate nell'economia globale e strategicamente posizionate, questa nuova realtà presenta sfide complesse ma anche opportunità. È imperativo sviluppare una consapevolezza strategica aggiornata, che riconosca la centralità della sicurezza economica e della resilienza. Ciò richiede investimenti mirati in innovazione tecnologica, diversificazione delle filiere, protezione delle infrastrutture critiche e sviluppo del capitale umano. A livello europeo, è cruciale rafforzare l'autonomia strategica, non in chiave isolazionista, ma come capacità di agire in modo coeso e assertivo per difendere i propri interessi e valori. Ridefinire il concetto di "valore", come suggerito da Mariana Mazzucato, privilegiando la creazione di valore reale rispetto all'estrazione finanziaria, e riconoscere il ruolo propulsivo di uno Stato imprenditore, può fornire una bussola in questo scenario. L'Italia, agendo attivamente all'interno di un'UE più forte e coesa, può navigare le turbolenze della geoeconomia, trasformando le vulnerabilità in punti di forza per un futuro di prosperità sostenibile e sicurezza integrata. Riferimento. La presente sintesi è elaborata sulla base delle valutazioni emerse nel convegno “Lavoro ed economia tra mercati, dazi e conflitti”, tenutosi a Ceggia (VE) il 13 maggio 2025. © RIPRODUZIONE RISERVATA
OHi Mag Report Geopolitico nr. 128 Riferimento
Introduzione Il 12 maggio 2025, l'Ufficio Informazioni del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese ha pubblicato un Libro Bianco intitolato "La Sicurezza Nazionale della Cina nella Nuova Era". Questo documento si propone di offrire una spiegazione completa dei concetti innovativi, delle pratiche e dei risultati conseguiti dalla Cina in materia di sicurezza nazionale, con l'obiettivo dichiarato di migliorare la comprensione della comunità internazionale su questo tema cruciale. Articolato in una prefazione, sei sezioni principali e una conclusione, il Libro Bianco delinea la visione cinese della sicurezza in un contesto globale definito "di cambiamento e disordine", sottolineando il ruolo stabilizzatore che Pechino intende giocare. La presente analisi si prefigge di sintetizzare i contenuti chiave del documento, esplorandone le conseguenze geopolitiche, strategiche, marittime e le specifiche implicazioni per l'Italia, per fornire un quadro chiaro, sintetico ed esauriente della nuova postura cinese in materia di sicurezza. I Fatti Il Libro Bianco sulla Sicurezza Nazionale della Cina nella Nuova Era, pubblicato nel maggio 2025, rappresenta una pietra miliare nella definizione della dottrina strategica di Pechino sotto la guida di Xi Jinping. Il documento si apre evidenziando come la Cina, nel perseguire la sua strategia di "ringiovanimento nazionale" in un contesto di "cambiamenti globali di portata mai vista da un secolo", sia riuscita a mantenere stabilità interna e progressi costanti nella sicurezza nazionale, contribuendo attivamente alla pace e allo sviluppo regionale in Asia-Pacifico e, di conseguenza, iniettando stabilità in un mondo percepito come volatile. Al centro della nuova dottrina vi è l'"approccio olistico alla sicurezza nazionale", definito come il primo pensiero strategico di tale portata ad essere elevato a principio guida per la sicurezza nazionale dalla fondazione della Repubblica Popolare. Questo approccio è presentato come una componente fondamentale del "Pensiero di Xi Jinping sul Socialismo con Caratteristiche Cinesi per una Nuova Era" e un contributo teorico significativo della Cina contemporanea alla comunità globale. La sua essenza risiede nell'integrare e coordinare molteplici dimensioni della sicurezza: politica, economica, militare, tecnologica, culturale, sociale, ecologica, delle risorse, nucleare, degli interessi oltremare, spaziale, dei fondali marini, polare, biologica, dell'intelligenza artificiale e dei dati. Questo approccio enfatizza la sicurezza del popolo come obiettivo ultimo, la sicurezza politica (cioè la stabilità del Partito Comunista Cinese e del sistema socialista) come compito fondamentale, e gli interessi nazionali come principio guida. Il Libro Bianco sottolinea che la sicurezza nazionale cinese nella nuova era è intrinsecamente legata al servire e promuovere uno sviluppo di alta qualità, supportare un'apertura di alto livello verso l'esterno e operare sotto lo stato di diritto. La Cina, afferma il documento, coordina la propria sicurezza con la sicurezza comune globale, opponendosi alla "generalizzazione" del concetto di sicurezza da parte di altri attori, non implementando coercizione securitaria e non accettando minacce o pressioni esterne. Si ribadisce l'adesione all'indipendenza, all'autonomia e alla fiducia in sé stessi, perseguendo un cammino di sicurezza nazionale con caratteristiche cinesi. Le responsabilità chiave della sicurezza nazionale includono: il mantenimento della posizione di governo del Partito e del sistema socialista, il miglioramento del senso di appagamento, felicità e sicurezza dei cittadini, la garanzia di uno sviluppo di alta qualità, la salvaguardia dell'integrità territoriale nazionale e dei diritti e interessi marittimi, la sicurezza dei settori emergenti e il rafforzamento dello "scudo di sicurezza" essenziale per il grande ringiovanimento della nazione cinese. Viene dato grande valore al coordinamento tra sviluppo e sicurezza, cercando un'interazione positiva tra sviluppo di alta qualità e sicurezza di alto livello, e promuovendo un rafforzamento reciproco tra apertura e sicurezza. La riforma e l'innovazione sono indicate come forze motrici per modernizzare il sistema e le capacità di sicurezza nazionale, adottando un approccio sistemico e istituzionale per migliorare l'efficienza e la coordinazione. Infine, il documento introduce e promuove l'Iniziativa di Sicurezza Globale (Global Security Initiative - GSI), che estende l'approccio olistico a una dimensione globale, proponendo una visione di sicurezza basata sulla costruzione di una "comunità dal futuro condiviso per l'umanità". La Cina si impegna a garantire sia la propria sicurezza sia quella comune, sostenendo il rafforzamento della governance globale della sicurezza attraverso la consultazione estesa, il contributo congiunto e i benefici condivisi, e il sostegno al vero multilateralismo per rendere il sistema di governance globale più giusto ed equo. Conseguenze Geopolitiche La pubblicazione del Libro Bianco e la dottrina in esso contenuta hanno profonde conseguenze geopolitiche. In primo luogo, la Cina si posiziona esplicitamente come un attore globale che non solo gestisce la propria sicurezza interna ma intende plasmare attivamente l'ordine di sicurezza internazionale. L'enfasi sulla "certezza e stabilità" che la Cina offrirebbe a un "mondo di cambiamento e disordine" è una chiara narrazione volta a presentare Pechino come un'alternativa o un complemento responsabile alle potenze tradizionali, in particolare agli Stati Uniti, spesso implicitamente criticati per politiche unilaterali o destabilizzanti. L'Iniziativa di Sicurezza Globale (GSI) è lo strumento principale di questa proiezione geopolitica. Proponendo un "vero multilateralismo" e una governance basata su "consultazione estesa, contributo congiunto e benefici condivisi", la Cina cerca di erodere l'egemonia percepita delle istituzioni e delle norme di sicurezza dominate dall'Occidente. Questo implica un tentativo di riscrivere, o almeno di influenzare significativamente, le regole del gioco globale, favorendo un sistema multipolare in cui la voce della Cina e del "Sud Globale" sia più forte. La GSI sfida implicitamente le alleanze militari tradizionali (come la NATO o le alleanze USA in Asia-Pacifico), promuovendo invece una sicurezza "comune, globale, cooperativa e sostenibile" che, nella visione cinese, dovrebbe trascendere i blocchi. La dottrina rafforza la centralità dell'Asia-Pacifico come arena di competizione e cooperazione. La Cina si presenta come un pilastro della stabilità regionale, ma al contempo la sua assertività nel difendere i "diritti e interessi marittimi" e l'integrità territoriale (con ovvi riferimenti al Mar Cinese Meridionale e a Taiwan) aumenta le tensioni con i vicini e con gli Stati Uniti. La crescente influenza cinese potrebbe portare a un riallineamento delle potenze regionali, alcune attratte dalle opportunità economiche e dalla visione di sicurezza alternativa offerte da Pechino, altre più preoccupate e spinte a rafforzare i legami con Washington. Conseguenze Strategiche Sul piano strategico, il Libro Bianco consolida e articola ulteriormente la "Grande Strategia" cinese incentrata sul "grande ringiovanimento della nazione cinese". La sicurezza politica, intesa come la sopravvivenza e il primato del Partito Comunista Cinese (PCC) e del sistema socialista, è posta come "compito fondamentale". Questo significa che ogni aspetto della politica nazionale e internazionale sarà subordinato a questo imperativo. L'"approccio olistico" diventa lo strumento strategico per garantire che nessuna minaccia, interna o esterna, possa compromettere questo obiettivo primario. La stretta interconnessione tra sviluppo e sicurezza ("rafforzare la sicurezza nello sviluppo e perseguire lo sviluppo nella sicurezza") implica che la crescita economica e l'innovazione tecnologica non sono fini a sé stesse, ma devono servire a rafforzare la sicurezza nazionale e, viceversa, la sicurezza deve garantire un ambiente stabile per lo sviluppo. Questo porta a strategie di autosufficienza tecnologica, di controllo delle catene di approvvigionamento critiche e di protezione dei dati nazionali, con l'obiettivo di ridurre le vulnerabilità esterne. La modernizzazione del sistema e delle capacità di sicurezza nazionale, attraverso riforme continue, segnala un impegno a lungo termine per costruire un apparato statale ancora più resiliente e capace di rispondere a un'ampia gamma di minacce, dalle tradizionali sfide militari alle nuove frontiere cibernetiche, spaziali e biologiche. Questo include un rafforzamento delle forze armate, ma anche delle capacità di intelligence, di controspionaggio e di gestione delle crisi. Strategicamente, la Cina sta costruendo una fortezza interna, dotandosi al contempo degli strumenti per proiettare la propria influenza e difendere i propri interessi crescenti a livello globale. L'enfasi sulla "sicurezza del popolo" serve anche come strumento di legittimazione interna, legando la stabilità del regime al benessere e alla protezione dei cittadini. Conseguenze Marittime di Quanto Raccontato nei Fatti Le conseguenze marittime della dottrina esposta nel Libro Bianco sono particolarmente significative. La "salvaguardia dell'integrità territoriale nazionale e dei diritti e interessi marittimi" è esplicitamente menzionata come una delle responsabilità chiave della sicurezza nazionale. Questa affermazione, pur non nuova, assume un peso maggiore nel contesto di un "approccio olistico" e di una crescente assertività cinese. Ciò si traduce in una continua e probabile intensificazione delle attività della Marina dell'Esercito Popolare di Liberazione (PLAN), della Guardia Costiera Cinese e delle milizie marittime nel Mar Cinese Meridionale, nel Mar Cinese Orientale e nello Stretto di Taiwan. La Cina continuerà a rivendicare la sovranità sulla quasi totalità del Mar Cinese Meridionale, ignorando la sentenza arbitrale del 2016, e a difendere le sue installazioni militari sulle isole artificiali. Le tensioni con Filippine, Vietnam, Malesia, Brunei e Indonesia, così come con gli Stati Uniti e altri attori esterni che conducono operazioni di libertà di navigazione (FONOPs), sono destinate a persistere, se non ad acuirsi. Riguardo a Taiwan, definita come parte inalienabile della Cina, la dottrina implica che Pechino utilizzerà tutti gli strumenti a sua disposizione, inclusa la pressione militare e la coercizione economica, per prevenire l'indipendenza formale e promuovere l'unificazione. La modernizzazione delle capacità anfibie e di proiezione di potenza della PLAN è direttamente correlata a questo obiettivo. Il riferimento alla sicurezza nei "campi emergenti", che include i "fondali marini" e le "regioni polari", indica l'ambizione cinese di estendere la propria influenza e presenza anche in questi domini strategici, con implicazioni per la gestione delle risorse, la ricerca scientifica e le rotte di navigazione future (come la Via della Seta Polare). La Cina cercherà di partecipare attivamente, se non di guidare, la definizione delle norme di governance in queste aree. Conseguenze per l’Italia Sebbene il Libro Bianco non menzioni specificamente l'Italia, le implicazioni della nuova dottrina di sicurezza cinese sono rilevanti anche per il nostro Paese. In qualità di membro del G7, della NATO e dell'Unione Europea, l'Italia si trova di fronte a un attore, la Cina, che propone una visione del mondo e della sicurezza parzialmente alternativa e talvolta in competizione con quella occidentale. Sul piano economico, l'enfasi cinese sull'autosufficienza tecnologica e sulla sicurezza delle catene di approvvigionamento potrebbe avere un impatto sulle imprese italiane che dipendono dal mercato cinese o da componenti provenienti dalla Cina. La strategia "sviluppo nella sicurezza" potrebbe tradursi in maggiori controlli e restrizioni per gli investimenti esteri in Cina in settori considerati strategici, e una spinta cinese a sostituire le tecnologie straniere con quelle nazionali. La partecipazione italiana alla Belt and Road Initiative (BRI) dovrà essere continuamente valutata alla luce di queste dinamiche, bilanciando opportunità economiche e potenziali rischi per la sicurezza nazionale e l'allineamento con gli alleati. Dal punto di vista geopolitico, l'Italia, come parte dell'UE, sarà chiamata a definire una posizione comune e coerente nei confronti della Cina e della sua Iniziativa di Sicurezza Globale. La GSI potrebbe tentare di creare divisioni all'interno dell'UE e tra l'Europa e gli Stati Uniti. L'Italia dovrà navigare la complessità di mantenere un dialogo costruttivo con Pechino, pur difendendo i propri valori e interessi, e quelli dell'alleanza atlantica, specialmente su questioni come i diritti umani, le norme internazionali e la stabilità in regioni chiave come l'Indo-Pacifico. La crescente assertività marittima cinese, pur geograficamente distante, ha implicazioni per la libertà di navigazione e il diritto internazionale marittimo, principi fondamentali per una nazione a forte vocazione marittima come l'Italia. Inoltre, la penetrazione cinese in infrastrutture critiche, inclusi i porti nel Mediterraneo, rientra nell'ambito dell'"approccio olistico" alla sicurezza e richiede un'attenta vigilanza per prevenire vulnerabilità strategiche. La competizione tecnologica, specialmente in settori come il 5G, l'intelligenza artificiale e i semiconduttori, richiederà all'Italia investimenti in innovazione e misure per proteggere la propria sovranità tecnologica e la sicurezza dei dati. Conclusioni e Raccomandazioni Il Libro Bianco cinese sulla Sicurezza Nazionale nella Nuova Era del 2025 consolida una visione strategica in cui la sicurezza, in tutte le sue molteplici dimensioni, è intrinsecamente legata allo sviluppo e al primato del Partito Comunista. L'"approccio olistico" e l'Iniziativa di Sicurezza Globale non sono mere dichiarazioni teoriche, ma delineano una roadmap per l'affermazione della Cina come potenza globale che intende plasmare attivamente l'ordine internazionale secondo i propri interessi e la propria visione. La centralità della sicurezza politica, l'enfasi sull'autosufficienza tecnologica, la determinazione a salvaguardare l'integrità territoriale e gli interessi marittimi, e la modernizzazione continua dell'apparato di sicurezza, sono tutti elementi che indicano una postura sempre più assertiva e fiduciosa da parte di Pechino. Per l'Italia e i suoi alleati occidentali, questo scenario richiede una profonda comprensione delle ambizioni cinesi e una strategia coordinata. È fondamentale analizzare criticamente le proposte cinesi come la GSI, riconoscendone sia le potenziali aree di cooperazione sia i punti di divergenza con i valori e gli interessi occidentali. Occorre rafforzare la resilienza interna, proteggere le infrastrutture critiche e la sovranità tecnologica, e promuovere un multilateralismo efficace che possa dialogare con la Cina da una posizione di unità e forza. Mantenere aperti i canali di comunicazione è cruciale, ma altrettanto lo è la chiarezza nel definire i limiti invalicabili e nel difendere i principi del diritto internazionale e della stabilità globale. La sfida sarà bilanciare la necessità di cooperare su questioni globali con la necessità di competere e, ove necessario, contrastare azioni che minano l'ordine basato sulle regole. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Giugno 2025
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