OHi Mag Report Geopolitico nr. 139 Introduzione La prima metà del XX secolo vide gli Stati Uniti emergere come una potenza marittima dominante, capace di proiettare influenza globale attraverso una fiorente industria cantieristica e una marina mercantile robusta. Tuttavia, come evidenziato da Arnav Rao nei suoi recenti contributi per The Atlantic ("How America Lost Control of the Seas", 28 maggio 2025) e nel rapporto dell'Open Markets Institute ("Charting a New Course: Steering U.S. Maritime Policy Towards Security and Prosperity", 28 maggio 2025), questo primato è oggi un lontano ricordo. Decenni di scelte politiche, in particolare a partire dagli anni '80, hanno condotto a una drastica riduzione della capacità marittima statunitense, con profonde implicazioni per la sicurezza nazionale, l'indipendenza economica e la stabilità delle catene di approvvigionamento globali. Questa analisi si propone di esaminare i fatti che hanno portato a tale declino, esplorandone le conseguenze geopolitiche, strategiche, marittime e le inevitabili ripercussioni per un attore marittimo chiave come l'Italia. I fatti I fatti descritti da Arnav Rao dipingono un quadro allarmante della situazione marittima statunitense. Nonostante circa l'80% del commercio internazionale americano per peso avvenga via mare e quasi il 90% delle forniture e attrezzature delle forze armate USA dipenda dal trasporto marittimo, la capacità produttiva nazionale è crollata a livelli minimi. Gli Stati Uniti costruiscono oggi un misero 0,13% delle grandi navi commerciali mondiali. Di contro, la Cina domina il settore, soddisfacendo circa il 60% di tutti i nuovi ordini di costruzione navale e vantando una capacità cantieristica oltre 200 volte superiore a quella americana. Questa dipendenza si estende a tutta la catena logistica: la stragrande maggioranza delle importazioni ed esportazioni USA viaggia su navi costruite, possedute e gestite da soli nove giganti del trasporto marittimo con sede in Europa e Asia. Entro la fine del 2024, queste compagnie si erano organizzate in tre potenti cartelli che controllavano circa il 90% del commercio containerizzato statunitense. Anche le infrastrutture portuali sono appannaggio estero: una singola azienda cinese produce l'80% di tutte le gru "ship-to-shore" utilizzate nei porti americani, l'86% dei telai per camion su cui vengono caricati i container e circa il 95% dei container stessi. Le conseguenze di questa perdita di controllo sono emerse drammaticamente durante la pandemia di COVID-19. I cartelli marittimi stranieri hanno aumentato i costi dei contratti spot su alcune rotte fino al 1.000%, realizzando profitti straordinari per 190 miliardi di dollari. Contemporaneamente, hanno rifiutato centinaia di milioni di dollari di esportazioni agricole statunitensi, preferendo far tornare rapidamente i container vuoti in Cina per caricare importazioni cinesi più redditizie, lasciando marcire il cibo americano sulle banchine. Le implicazioni per la sicurezza nazionale sono altrettanto gravi. La carenza di navi battenti bandiera americana e di marittimi americani ha creato una penuria critica di personale civile necessario per equipaggiare le navi di supporto della Marina. Nel novembre 2024, la US Navy ha confermato che avrebbe dovuto disarmare 17 navi di supporto, alcune consegnate solo nel gennaio dello stesso anno, a causa della mancanza di equipaggi. Ancora più preoccupante è la scarsità di navi di supporto stesse: in caso di conflitto nel Pacifico, gli Stati Uniti avrebbero bisogno di oltre 100 navi cisterna per il carburante, ma ne hanno a disposizione solo circa 15. La radice di questa crisi, secondo Rao, risale a un cambio di paradigma politico avvenuto a cavallo del XX secolo e consolidatosi negli anni '80. All'inizio del '900, l'industria del trasporto marittimo era afflitta dalla "concorrenza rovinosa": i vettori si impegnavano in spietate guerre tariffarie per coprire almeno i costi fissi elevati delle navi. Per evitare il collasso, si formarono cartelli non regolamentati che riducevano l'offerta e fissavano i prezzi, spesso a scapito degli spedizionieri più piccoli e dei porti minori, attraverso sconti segreti ai grandi operatori e pratiche discriminatorie. Parallelamente, il governo USA trascurava la politica marittima, rifiutando di stanziare risorse pubbliche per la cantieristica, mentre governi stranieri, soprattutto quello britannico, sovvenzionavano massicciamente i propri settori. Nel 1901, le navi costruite negli USA trasportavano solo l'8% del commercio nazionale. La situazione precipitò con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale in Europa nel 1914: Gran Bretagna, Francia e Italia dirottarono gran parte della loro capacità di trasporto a sostegno dello sforzo bellico. Essendo fortemente dipendenti dalla navigazione europea, gli Stati Uniti videro le tariffe di nolo impennarsi di circa 20 volte, rimanendo di fatto isolati dal resto del mondo e precipitando in una recessione economica. In risposta a questa emergenza, il Congresso approvò una serie di leggi che riversarono fondi pubblici nel potenziamento della capacità di trasporto e costruzione navale statunitense. Gli investimenti pubblici portarono alla costruzione di oltre 2.300 navi per la Prima Guerra Mondiale e oltre 5.500 durante la Seconda Guerra Mondiale, trasformando gli USA nel principale costruttore navale mondiale. Il Congresso riconobbe però che il solo investimento non era sufficiente: era necessario stabilire regole di mercato per il trasporto marittimo, sia per prevenire la concorrenza distruttiva sia per garantire che i vettori oceanici operassero nell'interesse pubblico. Fu creata la United States Shipping Board (poi sostituita dalla Federal Maritime Commission - FMC), incaricata di regolamentare l'industria come un servizio di pubblica utilità. I cartelli dovevano sottoporre i loro accordi operativi al governo, che poteva disapprovare o modificare quelli ritenuti discriminatori o ingiusti. Ai vettori fu vietato di praticare discriminazioni di prezzo o offrire sconti differiti. Sebbene non sempre applicate con efficacia, queste leggi rappresentarono un significativo miglioramento. Tuttavia, durante gli anni '80, il Congresso e l'amministrazione Reagan abbandonarono questo approccio di "concorrenza regolamentata". Sostenendo che la FMC fosse diventata una burocrazia pletorica, i reaganiani promossero l'idea che l'efficienza economica e prezzi di spedizione più bassi si sarebbero ottenuti se i vettori non fossero stati obbligati a trattare tutti gli spedizionieri allo stesso modo. Di conseguenza, una serie di leggi approvate durante le amministrazioni Reagan e Clinton privarono la FMC della sua capacità di regolamentare i cartelli dei vettori oceanici. L'effetto immediato fu un ritorno alla concorrenza distruttiva e allo sfruttamento che avevano caratterizzato il mercato all'inizio del XX secolo. Con l'ascesa della containerizzazione e di navi sempre più grandi, i costi fissi aumentarono, incentivando i vettori a riempire gli spazi vuoti anche a prezzi stracciati. I profitti crollarono e i vettori si rifugiarono in ondate di fusioni, facilitate dal contemporaneo arretramento del governo federale nell'applicazione dell'antitrust. Nei sette anni successivi alla firma dello Shipping Act del 1984 da parte del Presidente Reagan, sette grandi vettori furono assorbiti dalla concorrenza, rispetto a uno solo nell'intero periodo dal 1966 al 1983. I vettori battenti bandiera americana, con costi più elevati, furono particolarmente colpiti, soprattutto dopo che l'amministrazione Reagan ritirò i sussidi. Le due più grandi compagnie statunitensi, American President Lines e SeaLand, furono acquisite da società straniere rispettivamente nel 1997 e nel 1999, lasciando gli Stati Uniti senza vettori oceanici competitivi a livello globale. Nel frattempo, i cantieri navali asiatici iniziarono a beneficiare di massicci sussidi governativi. Le conseguenze furono quasi identiche al modello di inizio '900: la cantieristica navale scomparve quasi del tutto negli Stati Uniti, che oggi producono cinque o meno grandi navi commerciali all'anno, con i cantieri che si affidano quasi esclusivamente a contratti navali. In un momento di crescenti tensioni con la Cina, gli USA non hanno praticamente alcuna capacità di aumentare rapidamente la produzione di navi militari o da trasporto strategico (sealift). Anzi, tutte le navi commerciali che il governo statunitense appalta per il supporto militare sono costruite in Cina. Le conseguenze geopolitiche di questa abdicazione marittima sono vaste e allarmanti. La dipendenza quasi totale da potenze straniere, e in particolare dalla Cina, per la costruzione navale e la logistica marittima espone gli Stati Uniti a una vulnerabilità strategica senza precedenti. In un contesto di crescente rivalità tra grandi potenze, la capacità di un avversario di controllare o interrompere le rotte marittime vitali e la produzione di navi (sia commerciali che militari) conferisce una leva geopolitica enorme. La Cina, avendo raggiunto una posizione dominante nella cantieristica, nella produzione di container e nelle infrastrutture portuali critiche come le gru, può esercitare un'influenza significativa non solo sul commercio statunitense ma anche sulla capacità di Washington di proiettare potenza militare. L'episodio delle esportazioni agricole rifiutate durante la pandemia è un chiaro esempio di come le decisioni commerciali di cartelli stranieri possano avere dirette ripercussioni sull'economia americana e sulla sua sicurezza alimentare, ma anche un'anticipazione di come tale potere potrebbe essere usato in scenari di crisi geopolitica. La perdita di una flotta mercantile nazionale competitiva significa anche una ridotta capacità di rispondere autonomamente a crisi umanitarie o emergenze globali che richiedono un trasporto marittimo su larga scala. Inoltre, l'erosione dell'influenza americana negli organismi internazionali che regolano il trasporto marittimo è una conseguenza diretta della diminuzione della sua flotta e della sua industria. La geopolitica del XXI secolo è intrinsecamente legata al controllo dei mari e delle risorse che essi veicolano; aver ceduto tale controllo a competitori strategici rappresenta un errore di calcolo di proporzioni storiche. Dal punto di vista strategico, le implicazioni sono altrettanto cupe. La mancanza di una capacità cantieristica nazionale "surge" (cioè rapidamente espandibile in caso di necessità) compromette gravemente la capacità degli Stati Uniti di ricostituire le proprie forze navali o di aumentare la flotta di navi da trasporto strategico in caso di conflitto prolungato o di perdite significative. La dipendenza dalla Cina per la costruzione di navi commerciali appaltate per il supporto militare è una falla strategica evidente: in caso di tensioni o conflitto diretto con Pechino, tale supporto verrebbe meno o, peggio, potrebbe essere negato o sabotato. La penuria di marittimi americani è un altro collo di bottiglia strategico: senza equipaggi qualificati, anche le navi esistenti (militari e di supporto) non possono operare efficacemente, come dimostra il disarmo delle 17 navi di supporto della Navy. Questo indebolisce la prontezza operativa e la capacità di dispiegamento rapido delle forze armate statunitensi. La scarsità di navi cisterna è particolarmente critica, dato che qualsiasi operazione militare su vasta scala nel Pacifico richiederebbe enormi quantità di carburante. Affidarsi a navi cisterna straniere in tempo di guerra è una scommessa rischiosa, poiché la lealtà degli equipaggi e la disponibilità delle navi potrebbero non essere garantite. La perdita di leadership nell'innovazione marittima, un tempo appannaggio americano, significa che gli USA rischiano di rimanere indietro nello sviluppo di nuove tecnologie navali, dalla propulsione verde alle navi autonome, con ulteriori svantaggi strategici futuri. In sintesi, la strategia di difesa americana, che tradizionalmente si basa sulla proiezione di potenza globale attraverso il dominio marittimo, è oggi minata alla base dalla fragilità della sua componente industriale e logistica marittima. Le conseguenze marittime specifiche derivanti da questa situazione sono molteplici. Innanzitutto, vi è una chiara perdita di resilienza nelle catene di approvvigionamento. La concentrazione del trasporto containerizzato nelle mani di pochi cartelli stranieri li rende vulnerabili a shock esterni (come pandemie, conflitti regionali che interessano choke point cruciali) e capaci di imporre condizioni di mercato sfavorevoli agli spedizionieri americani, con conseguenti aumenti dei costi e ritardi. La mancanza di una flotta mercantile battente bandiera americana sufficientemente grande riduce la capacità degli USA di garantire flussi commerciali stabili e prevedibili, soprattutto per settori strategici. La quasi totale scomparsa della cantieristica commerciale USA implica la perdita di competenze tecniche specializzate, di infrastrutture e di una base industriale che potrebbe supportare la manutenzione, la riparazione e la modernizzazione non solo delle navi commerciali ma anche di quelle militari. Questo porta a una maggiore dipendenza da cantieri esteri anche per queste attività, con rischi per la sicurezza delle informazioni e la prontezza operativa. L'assenza di una competizione significativa da parte di vettori americani nel trasporto internazionale permette ai cartelli stranieri di operare con scarsa trasparenza e di dettare le regole del gioco, influenzando le rotte servite, la frequenza dei servizi e le tariffe, spesso a discapito dei porti americani più piccoli o degli esportatori di merci a minor valore aggiunto. Infine, la dipendenza dalle infrastrutture portuali costruite dalla Cina (come le gru) solleva preoccupazioni sulla sicurezza informatica e sulla possibilità di spionaggio o sabotaggio in caso di crisi. Per l'Italia, paese con una forte vocazione marittima, una profonda integrazione nelle catene del valore globali e una posizione geostrategica nel Mediterraneo, le implicazioni del declino marittimo americano e del consolidamento del potere marittimo in mani asiatiche ed europee (esclusi gli USA) sono significative, sebbene indirette. In primo luogo, un indebolimento della capacità statunitense di garantire la sicurezza delle rotte marittime globali e la libertà di navigazione – un bene pubblico da cui anche l'Italia ha tratto enormi benefici – potrebbe portare a una maggiore instabilità e a un aumento dei rischi per il commercio internazionale italiano. Se gli USA fossero meno capaci o meno disposti a intervenire in aree di crisi marittima, altri attori, anche ostili agli interessi occidentali, potrebbero cercare di colmare il vuoto. In secondo luogo, le dinamiche di mercato descritte, con la dominanza dei grandi cartelli marittimi, influenzano direttamente i costi e l'affidabilità dei trasporti anche per le imprese italiane che esportano o importano via mare. L'Italia, come altri paesi europei, si trova a negoziare con gli stessi potenti consorzi di vettori. Una minore competizione e una maggiore concentrazione di potere in questo settore si traducono inevitabilmente in condizioni meno favorevoli per gli spedizionieri, inclusi quelli italiani. In terzo luogo, la ridefinizione degli equilibri di potere marittimo potrebbe influenzare le dinamiche all'interno della NATO e i rapporti transatlantici. Una minore capacità di "sealift" americana potrebbe significare, in scenari di crisi che richiedono un intervento dell'Alleanza, una maggiore dipendenza dalle capacità marittime degli alleati europei, inclusa l'Italia, per il trasporto di truppe e materiali. Questo potrebbe comportare maggiori oneri e responsabilità per le marine europee. Inoltre, la focalizzazione strategica americana sull'Indo-Pacifico, in parte dettata dalla sfida posta dalla Cina (anche in ambito marittimo), potrebbe portare a un relativo disimpegno statunitense da altre aree, come il Mediterraneo. L'Italia, che considera il Mediterraneo Allargato il suo prioritario ambito di interesse strategico, potrebbe trovarsi a dover assumere un ruolo più assertivo nel garantire la sicurezza marittima nella regione, cooperando più strettamente con altri partner europei e mediterranei. Infine, la lezione americana sulla necessità di una politica marittima integrata e di investimenti pubblici a sostegno della cantieristica e del trasporto marittimo nazionale potrebbe offrire spunti di riflessione anche per l'Italia e l'Europa, che pure affrontano la concorrenza dei cantieri asiatici pesantemente sovvenzionati e la necessità di modernizzare le proprie flotte in chiave di sostenibilità ambientale e sicurezza. La vulnerabilità delle catene di approvvigionamento globali, emersa durante la pandemia, ha reso evidente l'importanza di una maggiore autonomia strategica anche in campo marittimo. Conclusioni La meticolosa analisi di Arnav Rao svela una verità scomoda ma ineludibile: gli Stati Uniti, un tempo indiscussa potenza marittima, hanno progressivamente ceduto il controllo dei mari a causa di decenni di scelte politiche miopi, dominate da una fede acritica nella deregolamentazione e da una colpevole negligenza verso un settore strategicamente vitale. Le conseguenze di questa "abdicazione marittima" – dalla dipendenza critica da cartelli stranieri e dalla Cina per la logistica e la cantieristica, alla vulnerabilità della sicurezza nazionale e all'instabilità delle catene di approvvigionamento – sono oggi drammaticamente evidenti. Il monito di Temistocle risuona con inquietante attualità. Per invertire questa rotta disastrosa, il rapporto dell'Open Markets Institute e gli articoli di Rao propongono non semplici aggiustamenti, ma un radicale cambio di paradigma: un ritorno a un sistema di "concorrenza regolamentata" che consideri il trasporto marittimo e la cantieristica come beni pubblici essenziali. Questo implica un rinnovato e robusto investimento pubblico in cantieristica, infrastrutture portuali e formazione di marittimi, affiancato da un rafforzamento dei poteri della Federal Maritime Commission per garantire tariffe eque, prevenire pratiche discriminatorie e assicurare che i vettori operino nell'interesse nazionale. L'applicazione rigorosa delle leggi antitrust contro i cartelli marittimi stranieri è altrettanto cruciale. Sebbene tali riforme possano comportare costi iniziali, i benefici a lungo termine in termini di sicurezza nazionale, resilienza economica, innovazione e prosperità diffusa sarebbero immensamente superiori. L'alternativa è un continuo e pericoloso scivolamento verso una dipendenza che mina le fondamenta stesse del potere e dell'autonomia americana, con inevitabili ripercussioni per l'intero Occidente, Italia inclusa. Riferimento:
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