OHi Mag Report Geopolitico nr. 135 Introduzione Il fascicolo di Foreign Affairs di Maggio/Giugno 2025 si presenta come un'analisi prospettica, quasi uno scenario planning, di un futuro geopolitico prossimo, potenzialmente dominato da un radicale cambiamento nella postura internazionale degli Stati Uniti, specialmente nell'ipotesi di un secondo mandato presidenziale di Donald Trump. Gli articoli convergono nel delineare un mondo che si allontana dal concetto di "competizione tra grandi potenze" come inteso nel decennio precedente, per abbracciare piuttosto una logica di "concerto tra potenze" o, più crudamente, di sfere d'influenza gestite da un numero ristretto di attori chiave – Stati Uniti, Cina e Russia in primis. Questa potenziale trasformazione non è indolore: essa implica una ridefinizione delle alleanze tradizionali, un approccio più transazionale e meno valoriale alla politica estera americana, e un conseguente aumento dell'incertezza e della volatilità per il resto del mondo. Gli autori esplorano le implicazioni di tale scenario, mettendo in luce sia i rischi di frammentazione dell'ordine liberale, sia le (limitate) opportunità per altri attori di ritagliarsi nuovi spazi di manovra. È un quadro speculativo, certo, ma estremamente stimolante per comprendere le dinamiche profonde che potrebbero plasmare il prossimo futuro globale. I Fatti Descritti Gli articoli di Foreign Affairs convergono nel dipingere uno scenario per il 2025 in cui un'ipotetica seconda amministrazione Trump imprime una svolta drastica alla politica estera statunitense. Stacie E. Goddard, in "The Rise and Fall of Great-Power Competition", ipotizza che Trump, anziché proseguire sulla linea della competizione con Cina e Russia, cerchi attivamente accordi e intese, configurando una sorta di "concerto" di uomini forti al comando del globo. Questo si tradurrebbe in una politica di collusione piuttosto che di competizione, con l'obiettivo di imporre una visione condivisa dell'ordine mondiale, spesso a scapito degli alleati tradizionali, i quali verrebbero sottoposti a forti pressioni. A. Wess Mitchell, in "The Return of Great-Power Diplomacy", corrobora questa visione, descrivendo un Trump che avvia audaci aperture diplomatiche verso Mosca, Pechino e persino Teheran, giustificando tale approccio come una forma di "diplomazia strategica" necessaria per un'America sovraesposta. Le trattative potrebbero vertere sulla fine della guerra in Ucraina a condizioni favorevoli per la Russia, su nuovi accordi commerciali e sul controllo degli armamenti nucleari, il tutto condotto con uno stile marcatamente transazionale. Parallelamente, la situazione interna degli Stati Uniti, come analizzato da Jennifer M. Harris in "The Post-Neoliberal Imperative", sarebbe caratterizzata da una profonda polarizzazione politica e da un acceso dibattito sul superamento del neoliberismo, con implicazioni dirette sulla politica economica e industriale, potenzialmente orientata verso forme di protezionismo e di intervento statale. Sul fronte della difesa, Michael Brown, in "The Empty Arsenal of Democracy", lancia un allarme sullo stato delle forze armate USA e della sua base industriale (DIB): scorte di munizioni ai minimi storici, equipaggiamenti obsoleti e una capacità rigenerativa inadeguata a sostenere un conflitto su larga scala contro una grande potenza. Questo deficit capacitivo rende l'America strategicamente vulnerabile. Nel frattempo, il panorama globale vedrebbe una Russia, come descritta da Alexander Gabuev in "The Russia That Putin Made", profondamente anti-occidentale, repressiva al suo interno e sempre più dipendente dalla Cina, rendendo qualsiasi détente con un'amministrazione Trump probabilmente superficiale e precaria. La Cina, analizzata da Rana Mitter in "The Once and Future China" e da Kurt M. Campbell e Rush Doshi in "Underestimating China", continuerebbe la sua ascesa, perseguendo l'obiettivo di diventare una "nazione ricca con un esercito forte", pur dovendo bilanciare le ambizioni militari con la prosperità economica. Pechino, secondo questi autori, ha già superato gli USA in diverse metriche chiave (manifatturiero, alcune tecnologie, dimensioni della marina, arsenali missilistici). Infine, nel Medio Oriente, Dana Stroul ("The Narrow Path to a New Middle East") evidenzia la vulnerabilità del regime iraniano e le opportunità, per Washington e i suoi partner regionali, di ridisegnare gli equilibri contenendo l'influenza di Teheran, sebbene un approccio trumpiano eccessivamente unilaterale potrebbe compromettere tali prospettive. Conseguenze Geopolitiche Le mosse di un'ipotetica amministrazione Trump nel 2025, così come delineate, avrebbero conseguenze geopolitiche di vasta portata. Innanzitutto, si assisterebbe al tramonto definitivo del momento unipolare americano e, potenzialmente, alla frammentazione dell'ordine liberale internazionale così come lo abbiamo conosciuto dal secondo dopoguerra (Goddard, Woods). Al suo posto, emergerebbe un sistema basato su sfere d'influenza e su un "concerto di potenze", dove pochi attori dominanti (USA, Cina, Russia) gestirebbero gli affari globali attraverso accordi diretti, spesso a discapito degli interessi di nazioni minori o di organismi multilaterali. Questo scenario comporterebbe un indebolimento strutturale delle alleanze tradizionali. La NATO e i partenariati nel Pacifico (con Giappone, Corea del Sud, Australia) verrebbero messi a dura prova dalla richiesta americana di un maggior "burden sharing" e da una politica estera USA percepita come inaffidabile e puramente transazionale (Goddard, Mitchell). Gli alleati potrebbero sentirsi abbandonati o costretti a cercare nuove garanzie di sicurezza, magari sviluppando una maggiore autonomia strategica, come ipotizzato da Ngaire Woods in "Order Without America". La stessa Woods suggerisce che, in assenza di una leadership americana, potrebbero emergere forme di cooperazione "demand-driven" tra gruppi di nazioni (come l'UE, l'OPEC, o i BRICS+) per gestire problemi comuni. Il triangolo strategico USA-Russia-Cina subirebbe una profonda riconfigurazione. Un eventuale avvicinamento tattico tra Washington e Mosca (per contenere la Cina) o tra Washington e Pechino (per gestire la Russia o altre crisi) introdurrebbe un'elevata instabilità e imprevedibilità (Goddard, Mitchell, Gabuev). La Russia di Putin, pur diffidente, potrebbe cogliere l'occasione per consolidare le proprie conquiste in Ucraina e minare ulteriormente la coesione occidentale. La Cina, dal canto suo, vedrebbe accrescere il proprio peso specifico, sia come partner occasionale degli USA, sia come attore sempre più influente nelle istituzioni multilaterali, soprattutto se Washington dovesse ritirarsi da esse (Woods, Mitter). Il rischio di un "G-0" o di un "G-3" conflittuale aumenterebbe, con poteri medi e regionali costretti a navigare in acque sempre più agitate, cercando di non finire stritolati tra i giganti. Conseguenze Strategiche Dal punto di vista strategico, le implicazioni sarebbero altrettanto profonde. Per gli Stati Uniti, la svolta trumpiana significherebbe un abbandono del ruolo di leadership globale a favore di una visione più ristretta e nazionalista degli interessi americani, un "America First" portato alle estreme conseguenze (Goddard, Mitchell). Sebbene Mitchell parli della necessità di una "diplomazia strategica" per gestire risorse limitate, il rischio è che questa si traduca in un isolazionismo transazionale. Campbell e Doshi, al contrario, sottolineano come l'unica via per gli USA per competere con la "scala" cinese sia attraverso una "statecraft incentrata sulla capacità" alleata, un approccio diametralmente opposto a quello ipotizzato per Trump. Per l'Europa e gli altri alleati, la conseguenza più immediata sarebbe la necessità stringente di un maggior "burden sharing" e lo sviluppo di una vera autonomia strategica, come evidenziato da Woods e Mitchell, e come implicitamente suggerito da Gabuev riguardo alla deterrenza europea verso la Russia. Ciò richiederebbe investimenti significativi nella difesa e una maggiore coesione politica interna, obiettivi difficili da raggiungere. La credibilità della deterrenza, sia convenzionale sia nucleare, verrebbe messa in discussione. Gli articoli di Lim & Fearon ("The Conventional Balance of Terror") e Freedman ("The Age of Forever Wars") sottolineano i pericoli di un'erosione della deterrenza convenzionale e il rischio di conflitti prolungati e senza chiare strategie di vittoria. La necessità di una "triade convenzionale" per gli USA, e per estensione per i suoi alleati più esposti, diventa cruciale per mantenere la stabilità. La base industriale della difesa occidentale, e americana in particolare, emergerebbe come un tallone d'Achille strategico. L'analisi di Brown ("The Empty Arsenal of Democracy") è impietosa: senza una riforma radicale degli appalti, un aumento degli investimenti e una rivitalizzazione della DIB, l'Occidente non sarebbe in grado di sostenere un conflitto ad alta intensità. Questo deficit impatta direttamente la capacità di deterrenza e la credibilità delle garanzie di sicurezza. Per la Cina e la Russia, questo scenario offrirebbe opportunità per espandere la propria influenza, ma non senza rischi: la Cina di Mitter deve bilanciare potenza militare e crescita economica, mentre la Russia di Gabuev rimane internamente fragile e dipendente da Pechino. La gestione delle crisi, specialmente nel Medio Oriente (Stroul), richiederebbe un approccio multilaterale che un'America isolazionista difficilmente potrebbe guidare. Conseguenze Marittime Sebbene non sia il focus primario di tutti gli articoli, le conseguenze marittime di un simile stravolgimento geopolitico e strategico sarebbero significative e pervasive. L'emergere di sfere d'influenza, come ipotizzato da Goddard, potrebbe portare a contestazioni dirette del principio della libertà di navigazione (FONOPs) e a un tentativo di controllo unilaterale di stretti e passaggi marittimi chiave da parte delle grandi potenze all'interno delle rispettive "zone". La stabilità delle rotte commerciali globali, da cui dipende l'economia mondiale, verrebbe seriamente minacciata. La continua crescita della potenza navale cinese, evidenziata da Mitter e da Campbell & Doshi, avrebbe implicazioni dirette per la sicurezza di Taiwan, del Mar Cinese Meridionale e si estenderebbe fino all'Oceano Indiano. L'obsolescenza della flotta USA e la sua ridotta capacità cantieristica, come denunciato da Brown, accentuerebbero questo squilibrio. La strategia navale statunitense, secondo Lim & Fearon e Campbell & Doshi, dovrebbe urgentemente virare verso una "triade convenzionale" con forze più elusive e resilienti, e incrementare la cooperazione industriale con alleati come Giappone e Corea del Sud per la produzione navale. L'Artico, data la crescente cooperazione sino-russa (implicita nell'analisi di Gabuev), assumerebbe una rilevanza strategica e marittima ancora maggiore, con l'apertura di nuove rotte e la potenziale militarizzazione. Nel Medio Oriente, l'instabilità nel Mar Rosso, legata alle azioni degli Houthi e all'influenza iraniana (Stroul), continuerebbe a perturbare il traffico marittimo attraverso il Canale di Suez, con ripercussioni sull'economia globale. La sicurezza marittima richiederebbe coalizioni internazionali robuste, ma un'America più isolazionista o transazionale potrebbe essere meno incline a guidarle o a parteciparvi con costanza, lasciando un vuoto che altri attori (o l'anarchia) potrebbero colmare. Le catene di approvvigionamento globali, già provate da crisi recenti, subirebbero ulteriori shock. Conseguenze per l’Italia Per l'Italia, un paese con una spiccata vocazione mediterranea e atlantica, le conseguenze di uno scenario come quello delineato sarebbero profonde e multidimensionali. La NATO, pilastro della sicurezza italiana, subirebbe una trasformazione radicale. Se l'impegno americano dovesse vacillare, come suggerito da Goddard, Mitchell e Woods, l'Italia si troverebbe di fronte alla necessità di contribuire in modo molto più sostanziale alla difesa europea, sia in termini di spesa militare sia di capacità operative. Questo avverrebbe in un contesto di crescente pressione per una maggiore autonomia strategica dell'Unione Europea, un processo in cui l'Italia dovrebbe definire attivamente il proprio ruolo. Il Mediterraneo e il Nord Africa, aree di primario interesse strategico per Roma, vedrebbero probabilmente un aumento dell'instabilità a causa di un disimpegno americano o di un approccio USA più erratico (Stroul, Woods). Ciò si tradurrebbe in maggiori rischi per la sicurezza energetica, un aumento dei flussi migratori irregolari e una potenziale recrudescenza del terrorismo. L'Italia sarebbe chiamata a un ruolo più attivo nella stabilizzazione della regione, possibilmente attraverso iniziative europee o coalizioni ad hoc. Sul piano economico, le politiche commerciali protezionistiche e transazionali della nuova amministrazione USA (Mitchell, Goddard) potrebbero danneggiare le esportazioni italiane e l'economia europea in generale. L'Italia dovrebbe navigare in un contesto economico globale "post-neoliberale" (Harris), cercando di proteggere i propri interessi nazionali e promuovendo al contempo soluzioni multilaterali ove possibile. Le relazioni con Cina e Russia diventerebbero ancora più complesse: l'Italia dovrebbe bilanciare gli imperativi economici con le esigenze di sicurezza, in un quadro in cui Washington potrebbe perseguire accordi bilaterali separati con Pechino o Mosca, scavalcando gli alleati europei. Questo scenario offrirebbe anche limitate opportunità: in un'Europa più autonoma e in un Mediterraneo più instabile, l'Italia potrebbe cercare di rafforzare il proprio ruolo diplomatico e di sicurezza, agendo come ponte tra diverse aree e promuovendo la stabilità regionale, ma ciò richiederebbe una visione strategica chiara e risorse adeguate. Conclusioni Il quadro che emerge dagli articoli di Foreign Affairs del Maggio/Giugno 2025 è quello di un mondo sull'orlo di una trasformazione potenzialmente radicale, innescata da un ipotetico ma non implausibile mutamento della politica estera americana e dalle perduranti dinamiche di competizione e ridefinizione dei rapporti tra grandi potenze. La conclusione principale è che l'ordine internazionale, già fragile, potrebbe affrontare la sua prova più dura, con il rischio concreto di una frammentazione in blocchi o sfere d'influenza e l'erosione delle istituzioni multilaterali che hanno garantito una relativa stabilità per decenni. Gli autori mettono in guardia contro i pericoli della miopia strategica, del transazionalismo fine a se stesso e del collasso della deterrenza, che potrebbero facilmente condurre a "guerre per sempre" o a errori di calcolo catastrofici, come evidenziato da Goddard riguardo al fallimento storico dei "Concerti tra potenze" e da Freedman sull'età dei conflitti interminabili. Di fronte a tale prospettiva, le raccomandazioni che si possono trarre, implicitamente o esplicitamente, dagli analisti sono chiare. Per l'Occidente e gli alleati degli Stati Uniti, inclusa l'Italia, diventa imperativo rafforzare la cooperazione multilaterale e prepararsi attivamente a scenari di disimpegno americano (Woods). Ciò significa investire seriamente nella difesa collettiva e nelle basi industriali nazionali e continentali (Brown, Campbell & Doshi), sviluppare una maggiore autonomia strategica, specialmente a livello europeo, e perseguire una diplomazia intelligente e proattiva, capace di offrire visioni costruttive per una futura coesistenza anche con attori oggi considerati avversari, come una Russia post-Putin (Gabuev, Mitchell). È fondamentale, come sottolineano Campbell e Doshi, una valutazione lucida e non ideologica delle minacce e delle opportunità, evitando sia il catastrofismo paralizzante sia l'eccessiva fiducia nelle proprie capacità unilaterali. Il futuro non è scritto: l'agency degli attori, la loro capacità di fare scelte strategiche informate e coraggiose, sarà determinante per navigare le turbolenze descritte e per plasmare un ordine globale meno pericoloso e più equo. Riferimento: Autori Vari, Foreign Affairs, Maggio/Giugno 2025, ForeignAffairs.com. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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