OHi Mag Report Geopolitico nr. 154 Introduzione L'operazione militare israeliana del 13 giugno 2025 contro l'Iran ha segnato un punto di inflessione per la stabilità globale, catalizzando la transizione da un paradigma di conflitto per procura a uno scontro statale diretto con immediate e significative conseguenze geopolitiche e geo-economiche. Questa escalation non è un evento isolato, ma la manifestazione critica di un sistema internazionale in fase di frammentazione. L'analisi che segue mira a decostruire questo evento epocale, esplorandone le conseguenze strategiche, geopolitiche, marittime e le implicazioni per l'Italia. Cronaca di un conflitto mai chiuso Nelle prime ore di venerdì 13 giugno, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno dato avvio a un'operazione militare multi-dominio, battezzata "Rising Lion", contro obiettivi strategici distribuiti sull'intero territorio della Repubblica Islamica dell'Iran. La scelta stessa del nome, come evidenziato da Emanuele Rossi su Formiche, possiede un valore simbolico profondo, evocando il leone della storica bandiera persiana in un chiaro affronto all'identità nazionale e ideologica del regime. L'attacco, articolato in almeno tre ondate aeree, è stato caratterizzato da una complessità e una portata che superano di gran lunga i precedenti scambi di colpi tra i due avversari. Gli obiettivi primari dell'operazione erano duplici: la neutralizzazione delle infrastrutture critiche del programma nucleare iraniano e la decapitazione della leadership militare e scientifica. Dispacci di agenzie internazionali hanno confermato attacchi di precisione contro i siti di arricchimento dell'uranio a Natanz, il reattore ad acqua pesante di Arak e il complesso militare di Parchin, sospettato di ospitare attività di ricerca legate alla militarizzazione del programma atomico. Parallelamente, come sottolineato da Andrea Muratore su InsideOver, i raid hanno colpito la capitale Teheran, con l'intento di eliminare figure apicali del sistema di potere. Fonti dei media di stato iraniani, successivamente riprese a livello globale, hanno confermato l'uccisione del comandante in capo dei Pasdaran, Hossein Salami, del consigliere diplomatico della Guida Suprema, Ali Shamkhani, e di altri alti ufficiali e scienziati nucleari. La complessità tattica dell'operazione, come analizzato da Maya Carlin su National Interest, risiede nella combinazione sinergica di diversi domini bellici. L'offensiva aerea è stata condotta da una flotta composita di caccia di ultima generazione, tra cui F-35I "Adir", F-15I e F-16I, capaci di lanciare munizioni di precisione a lungo raggio (stand-off). Tuttavia, questa proiezione di forza aerea è stata resa possibile da meticolose operazioni di intelligence condotte a terra. Secondo diverse fonti, squadre del Mossad si sarebbero infiltrate in territorio iraniano nei mesi precedenti per pre-posizionare sistemi di disturbo elettronico (jamming) e per lanciare droni kamikaze contro specifici sistemi di difesa aerea e arsenali missilistici, una tattica di "abilitazione" del campo di battaglia che, come notato da Fulvio Scaglione su InsideOver, presenta sorprendenti somiglianze metodologiche con le operazioni di sabotaggio ucraine contro le basi aeree russe. La reazione di Teheran, pur menomata dal colpo subito, non si è fatta attendere. Con l'operazione "Vera Promessa 3", l'Iran ha lanciato uno sciame di oltre cento droni contro il territorio israeliano. Significativamente, i droni non sono partiti solo dall'Iran, ma anche da basi in Siria, Iraq e Yemen, a dimostrazione di una deliberata attivazione dell'intera rete di proxy regionali. Questa mossa ha trasformato istantaneamente un confronto bilaterale in un potenziale conflitto multi-fronte, portando l'intera regione sulla soglia di una guerra su vasta scala. Conseguenze Geopolitiche L'onda d'urto geopolitica generata dall'operazione "Rising Lion" ha accelerato la frammentazione di un ordine internazionale già fragile, evidenziando la crescente inefficacia delle istituzioni multilaterali e la prevalenza di dinamiche di potere unilaterali o basate su coalizioni ad hoc. La convocazione d'urgenza del Consiglio di Sicurezza dell'ONU si è rivelata un esercizio di retorica impotente, incapace di produrre una risoluzione vincolante e confermando la sua marginalizzazione nella gestione delle crisi di sicurezza più acute. La postura degli Stati Uniti, sotto la seconda amministrazione Trump, è emblematica di questo nuovo paradigma. Come analizzato da Grant Rumley e Claudia Groeling per il Washington Institute, la "Dottrina Trump" privilegia accordi transazionali e un uso limitato della forza militare diretta, evitando costosi "endless wars". In questo quadro, Washington ha negato ufficialmente ogni coinvolgimento, ma ha simultaneamente strumentalizzato l'attacco israeliano come leva negoziale per costringere Teheran a cedere sul programma nucleare. Questa ambiguità strategica, tuttavia, presenta costi significativi. Internamente, come riporta Jack Hunter su Responsible Statecraft, ha provocato una dura reazione della base elettorale "MAGA", che vede nel sostegno a una nuova guerra in Medio Oriente un tradimento della promessa di "America First". Esternamente, ha minato la credibilità di Washington come mediatore e ha messo in luce una debolezza percepita rispetto alla capacità di Israele di dettare l'agenda regionale, come sottolineato da Joshua Yaphe su National Interest. La crisi ha inoltre agito da catalizzatore per i riallineamenti regionali. La ferma condanna dell'attacco da parte dell'Arabia Saudita non va letta come un atto di solidarietà verso l'Iran, ma come un calcolo pragmatico dettato dalla necessità di proteggere i propri ambiziosi piani di trasformazione economica (Vision 2030) da un'escalation che destabilizzerebbe l'intero Golfo. Questo indica un superamento delle rigide polarizzazioni del passato a favore di una gestione più fluida e autonoma degli interessi nazionali. L'isolamento dell'Iran, come evidenziato da Fulvio Scaglione su InsideOver, è risultato palese: né la Russia, vincolata da una complessa relazione con Israele e dalle sue priorità in Ucraina, né la Cina, restia a un coinvolgimento diretto che metterebbe a rischio i suoi interessi economici, sono intervenute. Questa solitudine strategica espone la debolezza strutturale del regime di Teheran, la cui rete di alleanze si è dimostrata inefficace di fronte a un'aggressione statale diretta. Conseguenze Strategiche Sul piano della dottrina militare, l'operazione "Rising Lion" segna l'affermazione di un nuovo paradigma di conflitto. L'analisi dell'Istituto Affari Internazionali (IARI) lo definisce "anapoliké" (dal greco, "non ascendente"), descrivendo una forma di guerra ad alta intensità tecnologica che mira a conseguire effetti strategici decisivi senza ricorrere a un'invasione di terra. Questo approccio si basa sull'impiego sinergico di aviazione stealth, munizioni di precisione a lungo raggio e intelligence multi-dominio per distruggere la capacità bellica avversaria, piuttosto che per conquistare territorio. L'obiettivo è trasformare l'azione militare in una "dichiarazione strategica", un atto che condiziona il comportamento del nemico attraverso l'imposizione psicologica ("psycho-logiké epivolí") e non tramite l'annientamento fisico totale. Questo modello minimizza i costi umani e politici per l'attaccante e, teoricamente, mantiene aperti i canali diplomatici, rappresentando una forma di conflitto postmoderno, ideale per un'era di competizione tra potenze che rifuggono la guerra totale. Per Israele, l'attacco è stato uno "sfolgorante successo militare", come scrive Riccardo Alcaro su Affari Internazionali, che ha ripristinato la propria deterrenza e inferto un colpo durissimo alle capacità operative iraniane. Tuttavia, il successo tattico potrebbe nascondere un fallimento strategico a lungo termine. Come avverte Richard Nephew su Foreign Affairs, è improbabile che un'operazione militare, per quanto vasta, possa eradicare completamente un programma nucleare così diffuso, ridondante e fortificato come quello iraniano. Al contrario, l'aggressione potrebbe fornire a Teheran la legittimazione e la spinta finale per abbandonare il Trattato di Non-Proliferazione (TNP) e perseguire apertamente lo sviluppo di un deterrente nucleare come ultima garanzia di sicurezza nazionale. Si verificherebbe così un paradosso della contro-proliferazione, in cui l'azione militare intesa a prevenire la bomba finisce per renderla inevitabile. Infine, l'analisi di Gianandrea Gaiani su Analisi Difesa offre una prospettiva più cinica, inquadrando l'attacco all'interno della teoria della "guerra diversiva". Secondo questa tesi, il premier Netanyahu, messo alle strette da difficoltà politiche interne, avrebbe cercato di allargare il conflitto per coinvolgere gli Stati Uniti, deviando l'attenzione e consolidando il proprio potere. Questa interpretazione suggerisce che le motivazioni strategiche potrebbero essere subordinate a calcoli di sopravvivenza politica, una dinamica che rende l'escalation ancora più pericolosa e imprevedibile. Conseguenze Marittime L'impatto dell'escalation militare si è immediatamente trasmesso dalle alture dell'altopiano iranico alle rotte marittime globali, evidenziando la fragilità del sistema commerciale internazionale. Come documentato da Alexander Whiteman su gCaptain e The Loadstar, la crisi ha introdotto una "nuova minaccia" per la navigazione commerciale, provocando un'immediata impennata dei costi assicurativi (i "war risk premiums") e delle tariffe di nolo. L'epicentro di questa tensione è lo Stretto di Hormuz, il choke point marittimo più critico del pianeta, attraverso cui transita circa un terzo del petrolio trasportato via mare e una porzione significativa del commercio di Gas Naturale Liquefatto (GNL). Sebbene una chiusura totale dello stretto sia ritenuta improbabile persino da esperti come Lars Jensen di Vespucci Maritime, il concetto di "minaccia credibile" è sufficiente a stravolgere i flussi commerciali. Come dimostrato dalla crisi nel Mar Rosso, bastano pochi attacchi riusciti per indurre le principali compagnie di navigazione, avverse al rischio, a deviare le proprie rotte, con conseguenti aumenti dei costi e dei tempi di transito. Una chiusura anche parziale di Hormuz, come analizzato da Peter Sand di Xeneta, avrebbe un impatto devastante, tagliando fuori i vitali hub di trasbordo di Dubai e Abu Dhabi e costringendo i vettori a riorganizzare le catene di approvvigionamento, con una maggiore dipendenza dai porti dell'India occidentale. La minaccia non è solo teorica. Il sequestro della nave portacontainer MSC Aries da parte delle forze iraniane nell'aprile 2024 costituisce un precedente inquietante, dimostrando la capacità di Teheran di condurre operazioni di interdizione selettiva contro il naviglio legato a interessi nemici. Con la percezione di un coinvolgimento americano nell'attacco del 13 giugno, il rischio di rappresaglie iraniane si estende potenzialmente a una gamma molto più ampia di navi commerciali. La simultanea instabilità in più punti di snodo marittimi (Hormuz, Mar Rosso/Suez, Mar Nero) crea una pressione sistemica senza precedenti sulle catene del valore globali, accelerando le tendenze verso il near-shoring e la ricerca di rotte alternative, come quelle artiche, che a loro volta presentano nuove sfide geopolitiche. Conseguenze per l'Italia Per un'economia di trasformazione come quella italiana, la cui competitività è intrinsecamente legata alla stabilità dei prezzi energetici e alla fluidità delle rotte marittime, le conseguenze della crisi mediorientale sono dirette, acute e multiformi. La dipendenza strutturale dall'importazione di idrocarburi rende il sistema produttivo italiano estremamente vulnerabile agli shock dei prezzi energetici. L'aumento dell'11% del costo del greggio, registrato nelle ore immediatamente successive all'attacco, si traduce direttamente in un aumento dei costi di produzione per l'industria manifatturiera e in una pressione inflazionistica sui consumi delle famiglie, minando la ripresa economica e la stabilità sociale. La vulnerabilità italiana è accentuata dalla sua geografia. Posizionata al centro del Mediterraneo, l'Italia è esposta in prima linea a tutte le dinamiche di instabilità provenienti dal "Mediterraneo Allargato", un'area che si estende dal Nord Africa al Golfo Persico. La sicurezza delle Linee di Comunicazione Marittima (SLOCs) che attraversano il Canale di Suez e lo Stretto di Hormuz è un interesse nazionale primario. Qualsiasi interruzione di queste rotte avrebbe un impatto paralizzante sui porti italiani e sull'intero sistema logistico nazionale. Questa esposizione strutturale impone all'Italia una risposta strategica proattiva. Sul piano diplomatico, il governo si è mosso rapidamente per promuovere, in coordinamento con i partner europei, iniziative di de-escalation. Questa postura non risponde solo a un imperativo morale, ma a un calcolo strategico volto a proteggere gli interessi nazionali. A lungo termine, la crisi rafforza la necessità per l'Italia di accelerare la diversificazione delle fonti energetiche e di investire in nuove infrastrutture e rotte strategiche. Conclusioni L'analisi degli eventi del 13 giugno 2025 conferma una transizione di fase del sistema internazionale verso un paradigma di elevata volatilità e rischio sistemico. L'attacco israeliano all'Iran ha agito da shock esogeno, destabilizzando simultaneamente tre sottosistemi interconnessi: il complesso di sicurezza regionale mediorientale, l'architettura geo-economica globale e l'equilibrio della competizione tra grandi potenze. L'ordine globale è entrato in una fase di instabilità strutturale, caratterizzata da una maggiore tolleranza al rischio da parte degli attori, dall'inefficacia dei meccanismi multilaterali e dalla stretta interdipendenza tra sicurezza regionale e stabilità sistemica. L'evoluzione di questa crisi dipenderà dall'interazione di tre variabili critiche. A livello regionale, il calcolo strategico di Teheran costituisce la variabile immediata. Una ritorsione militare massiccia potrebbe innescare una spirale di escalation incontrollata, mentre una risposta contenuta rischia di erodere la deterrenza del regime. Sul piano geo-economico, la sicurezza delle linee di comunicazione marittima, in particolare nello Stretto di Hormuz, funge da indicatore primario della tensione. A livello sistemico, la gestione della rivalità sino-americana rimane il determinante strutturale a lungo termine. La precarietà del loro equilibrio competitivo indica che la stabilità globale dipenderà dalla capacità di governare questa dinamica, che è il vero motore del nuovo disordine globale. È imperativo che la comunità internazionale, e in particolare gli attori con un interesse diretto alla stabilità come l'Europa, intensifichino gli sforzi diplomatici per contenere la crisi, promuovere canali di dialogo e prevenire un'ulteriore, catastrofica, escalation. Riferimento:
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