OHi Mag Report Geopolitico nr. 130 Introduzione L'instabilità cronica nel Kashmir amministrato dall'India ha conosciuto un nuovo, tragico capitolo con il brutale attacco avvenuto nella valle di Baisaran, vicino a Pahalgam. Questo evento, che ha scosso una regione già segnata da decenni di conflitto, ha immediatamente riacceso le tensioni tra India e Pakistan. Tuttavia, mentre la narrativa ufficiale indiana ha prontamente puntato il dito contro il vicino rivale, attribuendo la responsabilità a gruppi militanti sostenuti da Islamabad, emergono voci critiche che invitano a una riflessione più profonda e scomoda. L'analisi di Ishaal Zehra, pubblicata su The Interpreter, si inserisce in questo filone, sfidando la versione semplicistica degli eventi. Zehra non nega la tragedia, ma la inquadra primariamente come una grave falla nella sicurezza indiana, inserita in un contesto più ampio di politiche repressive e irrisolte questioni politiche che affliggono il Kashmir, suggerendo che la frettolosa accusa al Pakistan serva più a mascherare debolezze interne che a perseguire la verità. I fatti L'analisi delle recenti tensioni tra India e Pakistan, specialmente alla luce dell'attacco di Pahalgam del 22 aprile e della successiva "Operazione Sindoor" indiana, deve necessariamente partire da una comprensione più profonda del contesto, come offerto dalla prospettiva di Ishaal Zehra. Prima di questi eventi, il periodo dal 2 maggio era stato caratterizzato da una relativa calma lungo la Linea di Controllo, una "stabilità instabile" in cui il possesso dell'arma atomica da entrambe le parti sembrava imporre una cautela che, pur tra tensioni latenti, tendeva a favorire meccanismi di de-escalation. Tuttavia, gli avvenimenti recenti hanno stravolto questo fragile equilibrio, precipitando la regione in una crisi aperta e pericolosa. L'articolo di Ishaal Zehra offre una lente critica fondamentale per interpretare l'attacco di Pahalgam. Zehra non lo considera un semplice atto di terrorismo, ma un evento che getta ombre inquietanti sull'efficacia dell'apparato di sicurezza indiano. Sottolinea il paradosso di un attacco così audace, condotto con apparente impunità in un'area pesantemente militarizzata e sorvegliata. L'autrice traccia un parallelo con l'attentato di Pulwama del 2019, suggerendo una possibile ripetizione di fallimenti dell'intelligence e una mancanza di responsabilità sistemica. Secondo Zehra, invece di un'approfondita introspezione, la reazione indiana è stata quella di additare immediatamente il Pakistan e il gruppo The Resistance Front (TRF), che peraltro ha negato il proprio coinvolgimento. Questa pronta attribuzione di colpa viene vista da Zehra come una "narrativa conveniente", utile a Nuova Delhi per deviare l'attenzione da proprie mancanze interne, consolidare il consenso e ottenere solidarietà internazionale, il tutto basandosi su prove che l'autrice giudica deboli e non tracciabili. Zehra spinge l'analisi oltre, individuando le radici dell'instabilità nelle politiche indiane in Kashmir: l'eccessiva militarizzazione, le presunte violazioni dei diritti umani, e le modifiche costituzionali come l'abolizione dell'articolo 370, che avrebbero alimentato un profondo senso di alienazione nella popolazione locale, trasformando, a suo dire, la lotta al terrorismo in una vera e propria "occupazione". È in questo scenario, già teso e gravido di recriminazioni, che si è consumata la drammatica escalation. Le affermazioni iniziali di una fase priva di scontri militari su larga scala sono state brutalmente smentite dall'"Operazione Sindoor", lanciata dall'India tra il 6 e il 7 maggio. Questa operazione, con incursioni aeree e missilistiche contro nove presunti siti terroristici in territorio pakistano e nel Kashmir amministrato da Islamabad (specificamente a Muzaffarabad, Kotli e Bahawalpur), ha rappresentato un salto di qualità nelle ostilità, ben oltre le consuete schermaglie lungo la linea di confine. L'India ha giustificato questa azione come una rappresaglia mirata per l'attacco di Pahalgam, un'operazione "concentrata, misurata e priva di intenzioni di escalation" volta a colpire infrastrutture di gruppi come Lashkar-e-Taiba, Jaish-e-Mohammed e Hizbul Mujahideen, con l'obiettivo dichiarato di "fare giustizia" per le vittime. La reazione del Pakistan non si è fatta attendere. Islamabad ha condannato quelli che ha definito "attacchi vigliacchi", denunciando la morte di 31 civili, tra cui bambini, e il danneggiamento di una moschea, e ha rivendicato il diritto di rispondere. Fonti pakistane hanno dichiarato di aver abbattuto diversi caccia indiani – si parla di almeno tre velivoli, due Rafale e un Su-30MKI o MiG-29 – utilizzando i propri caccia J-10C armati con missili cinesi PL-15E, e di aver risposto con fuoco d'artiglieria. L'India, da parte sua, non ha confermato le perdite. È importante notare che questa escalation militare era stata preceduta da una serie di misure ritorsive non militari da parte indiana, quali la sospensione dei visti, la dichiarazione di persona non grata per il Ministro della Difesa pakistano, il blocco delle importazioni di petrolio e delle comunicazioni postali, la chiusura dei porti e dello spazio aereo alle entità pakistane e, in modo particolarmente significativo, la sospensione del Trattato delle Acque dell’Indo. Il fattore nucleare, che in precedenza sembrava spingere verso una gestione cauta delle crisi, ora amplifica enormemente la gravità della situazione. Il rischio incalcolabile di un conflitto tra due potenze nucleari è aumentato vertiginosamente, specialmente considerando che l'India ha condotto attacchi significativi ben all'interno del territorio pakistano, una mossa che già nel 2019 (crisi di Balakot) aveva portato la regione sull'orlo di un conflitto più ampio. La portata dell'"Operazione Sindoor" appare persino maggiore. Entrambe le nazioni si sono spinte pericolosamente vicino al baratro, manifestando un evidente eccessiva pressione psicologica, praticata al fine di cercare di ottenere un risultato vantaggioso senza rendersi conto che spingendo in avanti gli eventi si poteva giungere sull'orlo di un conflitto attivo. Di conseguenza, la de-escalation, che prima poteva essere vista come una tendenza intrinseca alla dinamica nucleare, è ora diventata un imperativo urgente, spinto dalla comunità internazionale (con appelli da parte di USA e ONU) e dalla speranza che la consapevolezza delle catastrofiche conseguenze di un'ulteriore escalation prevalga. Le dichiarazioni indiane su un'azione "priva di intenzioni di escalation" e la risposta inizialmente definita "difensiva" dal Pakistan potrebbero essere interpretati come flebili segnali di un tentativo di non superare una soglia critica, ma la situazione rimane estremamente volatile e imprevedibile. L'amministrazione statunitense, in linea con la politica estera statunitense tradizionale, ha probabilmente contribuito a gestire e contenere specifiche crisi tra India e Pakistan, come già avvenuto nel 2019. Tuttavia, attribuirgli il merito esclusivo o primario per una generale "tranquillizzazione" sarebbe fuorviante. La dinamica tra India e Pakistan è complessa e influenzata da molti fattori, tra cui il più importante è la logica della deterrenza nucleare e i calcoli strategici interni ad entrambi i paesi. La situazione rimane intrinsecamente instabile, e periodi di relativa calma sono spesso intervallati da picchi di tensione. La "tendenza alla de-escalation" non è più un processo da osservare passivamente, ma un obiettivo che richiede sforzi diplomatici intensi e una ferma volontà politica da entrambe le parti, sotto la forte pressione della comunità internazionale, che svolge quindi un ruolo essenziale nel calmare la situazione tra i due contendenti. In questo quadro, le analisi come quella di Ishaal Zehra, che puntano il dito sulle cause profonde del malcontento e sulle dinamiche interne, specialmente in Kashmir, rimangono fondamentali per comprendere la complessità del conflitto e le immense difficoltà nel trovare soluzioni durature, anche una volta che questa fase acuta della crisi sarà, si spera, superata. Le conseguenze geopolitiche di questa dinamica, secondo l'analisi di Zehra, sono estremamente negative. La rapida accusa al Pakistan, amplificata dai media e presentata alla comunità internazionale, sebbene possa portare vantaggi tattici a breve termine per l'India, perpetua un ciclo di ostilità che impedisce qualsiasi progresso verso una soluzione negoziata del conflitto indo-pakistano sul Kashmir. Ogni incidente diventa un pretesto per rafforzare le posizioni più intransigenti da entrambe le parti, minando la fiducia e rendendo il dialogo quasi impossibile. Questa retorica anti-pakistana costante, sostiene Zehra, "influenza la psiche pubblica, coltiva la paranoia e semina semi di ostilità permanente", rischiando di approfondire l'instabilità in una regione già nuclearizzata e altamente volatile come l'Asia meridionale. A livello internazionale, mentre l'India cerca di consolidare la propria immagine di vittima del terrorismo transfrontaliero, la mancanza di prove credibili e verificabili, unita alle crescenti critiche sulle sue politiche interne in Kashmir, rischia di erodere la sua credibilità globale nel lungo periodo. La riduzione di una tragedia complessa a una mera voce nel "punteggio geopolitico" tra India e Pakistan, avverte Zehra, impedisce di affrontare le vere cause del conflitto. Sul piano strategico, l'analisi di Ishaal Zehra evidenzia principalmente le debolezze e le contraddizioni della strategia indiana in Kashmir. Il fallimento nel prevenire attacchi come quello di Pahalgam, nonostante l'imponente dispiegamento militare e di intelligence, suggerisce lacune significative nella raccolta di informazioni, nell'analisi o nella capacità di risposta rapida. La scelta strategica di rispondere a tali fallimenti non con una revisione interna e riforme, ma con l'immediata esternalizzazione della colpa verso il Pakistan, sebbene possa servire a consolidare il fronte interno e a distogliere l'attenzione pubblica, si rivela strategicamente controproducente nel lungo termine. Impedisce infatti di correggere le vulnerabilità reali dell'apparato di sicurezza e rischia di creare un falso senso di sicurezza basato sulla demonizzazione del nemico esterno. Inoltre, la strategia complessiva di Nuova Delhi nel Kashmir, caratterizzata da forte militarizzazione, repressione del dissenso e politiche percepite come volte a modificare l'identità della regione, secondo Zehra, non riesce a estirpare le radici della militanza. Al contrario, l'alienazione crescente della popolazione locale, privata di diritti e dignità, potrebbe paradossalmente fornire terreno fertile per il reclutamento da parte di gruppi estremisti e rendere più difficile la raccolta di intelligence umana affidabile. La strategia indiana, quindi, rischia di essere intrappolata in un circolo vizioso in cui le misure di sicurezza repressive alimentano il risentimento che a sua volta giustifica ulteriore repressione, senza affrontare le questioni politiche fondamentali. Le implicazioni tecnologiche e strategiche degli scontri, qualora le affermazioni pakistane sull'abbattimento di moderni caccia indiani fossero confermate, sarebbero notevoli. Potrebbero mettere in discussione la presunta superiorità aerea convenzionale dell'India, evidenziare la crescente efficacia degli armamenti cinesi e la solidità della partnership sino-pakistana. Anche il commento attribuito a fonti russe, circa la scelta indiana di acquistare materiale francese anziché russo, aggiunge un ulteriore strato di complessità all'analisi geopolitica e delle dinamiche dell'industria della difesa globale. L'articolo di Ishaal Zehra si concentra esclusivamente sulle dinamiche terrestri e politiche del conflitto in Kashmir, una regione senza sbocco sul mare. Di conseguenza, non emergono dall'analisi conseguenze marittime dirette legate all'attacco di Pahalgam o alla più ampia situazione kashmira. Le tensioni tra India e Pakistan si manifestano principalmente lungo la Linea di Controllo (LoC) terrestre, attraverso scambi di artiglieria, infiltrazioni e, occasionalmente, scontri aerei. Sebbene entrambe le nazioni possiedano marine militari significative che operano nell'Oceano Indiano, il conflitto del Kashmir non ha, storicamente e attualmente, una dimensione marittima rilevante. Pertanto, basandosi strettamente sul contenuto del testo fornito, non è possibile delineare specifiche conseguenze marittime derivanti dai fatti e dalle analisi presentate da Zehra. La focalizzazione rimane saldamente ancorata alle questioni di sicurezza interna indiana, alle relazioni bilaterali terrestri e alle dinamiche politiche interne al Kashmir. Le conseguenze per l'Italia, data la natura regionale e specifica del conflitto trattato nell'articolo, sono principalmente indirette e si collocano nel quadro più ampio delle relazioni internazionali e della stabilità globale. L'Italia, come membro dell'Unione Europea e della comunità internazionale, segue con preoccupazione l'evolversi della situazione in Kashmir e le tensioni tra India e Pakistan, due potenze nucleari. Un'escalation del conflitto avrebbe ripercussioni negative sulla stabilità dell'Asia meridionale e, potenzialmente, sull'economia globale, ambiti in cui l'Italia ha interessi significativi, sia diplomatici che commerciali. Roma sostiene generalmente le posizioni dell'UE che invitano entrambe le parti alla moderazione, al dialogo bilaterale e al rispetto dei diritti umani. L'analisi di Zehra, mettendo in discussione la narrativa ufficiale indiana e sottolineando le questioni legate ai diritti umani e alle falle nella sicurezza, potrebbe contribuire a informare le valutazioni diplomatiche italiane e comunitarie sulla complessità della situazione, incoraggiando un approccio che vada oltre la semplice condanna degli atti terroristici e promuova un'analisi più approfondita delle cause sottostanti. L'Italia potrebbe essere coinvolta, attraverso i canali UE o ONU, nel sostenere iniziative volte a ridurre la tensione, a promuovere misure di fiducia tra India e Pakistan e a monitorare la situazione dei diritti umani nella regione. Conclusioni e Raccomandazioni In conclusione, l'analisi di Ishaal Zehra sull'attacco di Pahalgam, pubblicata su The Interpreter, offre una prospettiva critica e alternativa rispetto alla narrativa predominante. Sottolineando le gravi falle nella sicurezza indiana e contestualizzando l'evento all'interno delle politiche repressive e delle irrisolte questioni politiche del Kashmir, Zehra sfida l'immediata attribuzione di colpa al Pakistan. L'autrice argomenta che questo schema ricorrente di esternalizzazione della responsabilità serva più a mascherare le debolezze interne e a consolidare il consenso politico che a perseguire la verità e la giustizia. La vera soluzione, suggerisce Zehra, non risiede nell'intensificare la retorica ostile o la militarizzazione, ma nel coraggio di un'autocritica da parte di Nuova Delhi. Le raccomandazioni implicite ed esplicite che emergono dall'articolo sono chiare: l'India dovrebbe avviare un'indagine approfondita e trasparente sui fallimenti della sicurezza che hanno permesso l'attacco, tenendo responsabili i funzionari coinvolti. È necessario un riesame critico delle politiche adottate in Kashmir, affrontando le diffuse accuse di violazioni dei diritti umani e abbandonando quelle che vengono percepite come misure volte a modificare la demografia della regione. L'autrice invoca un ritorno al rispetto della dignità e dell'autonomia del popolo kashmiro, menzionando esplicitamente il diritto a un plebiscito come via per affrontare le cause profonde del conflitto. Solo attraverso un sincero ripensamento della propria strategia, un abbandono della postura ostile e un impegno a risolvere le questioni fondamentali, conclude Zehra, si potrà sperare di costruire una pace duratura e di contrastare efficacemente il flagello del terrorismo nella regione. Riferimento Ishaal Zehra, Kashmir: Why was India so quick to blame Pakistan?, The Interpreter (Lowy Institute), 2 Maggio 2025, https://www.lowyinstitute.org/the-interpreter/kashmir-why-was-india-so-quick-blame-pakistan © RIPRODUZIONE RISERVATA
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