OHi Mag Report Geopolitico nr. 159 Il realismo coercitivo di Trump: analisi di un paradigma diplomatico Introduzione Nell'arena complessa e spesso codificata delle relazioni internazionali, l'approccio diplomatico del Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha rappresentato una rottura netta con le convenzioni del passato. Lungi dall'essere un'accozzaglia di impulsi caotici, la sua politica estera, come analizzato acutamente da George Friedman, rivela un modello operativo sorprendentemente coerente, sebbene eterodosso. Friedman sostiene che Trump non agisca a caso, ma segua uno schema preciso, quasi un algoritmo, basato sull'introduzione deliberata di shock e incertezza come preludio a un negoziato transazionale. Questo metodo, che capovolge i canoni della diplomazia tradizionale fondata su stabilità e prevedibilità, utilizza la minaccia, sia militare che economica, come leva fondamentale per costringere gli interlocutori, alleati o avversari, a rinegoziare i termini delle loro relazioni con gli Stati Uniti. Il presente saggio si propone di sintetizzare ed espandere tale analisi, partendo dalla descrizione dei fatti e del modello operativo individuato, per poi esplorarne le profonde conseguenze a livello geopolitico, strategico, marittimo e, infine, le specifiche implicazioni per un attore come l'Italia, calato nel cuore del sistema euro-atlantico. L'obiettivo è offrire una lettura chiara e strutturata di un fenomeno che continua a plasmare la dinamica globale. I fatti L'analisi di George Friedman identifica un modello diplomatico trumpiano che si articola in una sequenza riconoscibile e ripetuta, quasi un manuale operativo in tre fasi. Il primo passo consiste nell'avanzare una richiesta radicale e spesso provocatoria, concepita per generare uno shock sistemico e scardinare lo status quo. Questa mossa iniziale, come la richiesta all'Iran di abbandonare il suo programma nucleare, è quasi sempre accompagnata da minacce esplicite di gravi conseguenze in caso di mancato adempimento. La seconda fase è quella del negoziato, abilmente intervallato da pressioni continue, avvertimenti e occasionali lusinghe, un periodo di tensione controllata in cui Trump si presenta come l'unico attore in grado di risolvere la crisi da lui stesso innescata. La fase finale dipende dall'esito di tali trattative: se queste falliscono o non producono i risultati desiderati da Washington, scatta un'azione punitiva, come dimostrano i drammatici attacchi militari contro l'Iran dopo il superamento di una scadenza negoziale. Se, al contrario, il negoziato porta a un accordo vantaggioso, si assiste a una riconciliazione, come nel caso della NATO. Qui, la minaccia esistenziale di un ritiro americano ha innescato intense negoziazioni, culminate nell'impegno dei paesi europei ad aumentare i budget militari, un risultato che Trump ha salutato come un successo, riaffermando l'impegno statunitense. La stessa struttura si applica alla politica commerciale, con dazi globali come shock iniziale seguiti da negoziati bilaterali, e al conflitto in Ucraina, dove lo shock è stato inferto a Kyiv con l'ipotesi di un abbandono del sostegno americano per forzare la Russia a trattare. Conseguenze geopolitiche Le conseguenze geopolitiche di questo modello sono profonde e pervasive, ridefinendo gli equilibri di potere globali. L'elemento più dirompente è l'erosione sistematica della prevedibilità, che per decenni è stata la pietra angolare dell'ordine liberale. Il modello trumpiano eleva l'imprevedibilità a strumento strategico, generando una sorta di instabilità calcolata che costringe tutti gli attori, amici e nemici, a una continua e snervante rivalutazione delle proprie posizioni. Questo approccio favorisce nettamente il bilateralismo, applicando una deliberata tattica del "divide et impera" che indebolisce i blocchi multilaterali. Le istituzioni internazionali e le alleanze consolidate vengono declassate da forum di cooperazione a mere arene per rinegoziare accordi transazionali. La logica è quella del "deal", in cui gli Stati Uniti massimizzano i propri interessi in negoziati uno a uno. Ciò produce una polarizzazione delle risposte: nazioni come l'Iran reagiscono con un inasprimento militare, mentre alleati storici, come i membri della NATO, si trovano spesso a cedere per mantenere il legame vitale con Washington. Di conseguenza, le alleanze subiscono una trasformazione genetica: da patti fondati su valori e interessi a lungo termine, diventano accordi condizionali basati su un freddo calcolo costi-benefici. L'Alleanza Atlantica viene "salvata" non attraverso un rinnovato impegno ai principi della difesa collettiva, ma attraverso un accordo finanziario, un processo che rischia di svuotarla del suo significato politico e della sua coesione. Conseguenze Strategiche Dal punto di vista strategico, il modello descritto da Friedman comporta un radicale cambiamento nella postura di sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi partner, inaugurando una fase di marcata militarizzazione della diplomazia. La strategia americana diventa orientata alla "compellence" – costringere un attore a cambiare comportamento – piuttosto che alla tradizionale "deterrence". Le minacce non sono più uno sfondo implicito, ma uno strumento esplicito e primario della politica. Per i pianificatori militari, questa volatilità rappresenta un incubo, rendendo quasi impossibile una programmazione della difesa a lungo termine. L'incertezza sulla tenuta delle alleanze fondamentali introduce il concetto di "deterrenza condizionata": la garanzia di sicurezza americana non è più un assoluto, ma è subordinata al rispetto di determinate condizioni, spesso di natura economica. Il confine tra diplomazia e uso della forza si assottiglia pericolosamente, con l'opzione militare che diventa uno strumento negoziale primario per sbloccare uno stallo. Questa logica comporta anche il rischio di conseguenze involontarie, come l'incentivare la proliferazione nucleare, spingendo gli alleati più esposti a cercare una propria garanzia di sicurezza. Infine, si assiste a "riallineamenti forzati": l'accordo sulla spesa militare ha costretto l'Europa a un riarmo accelerato, mentre le trattative dirette tra Washington e altre potenze, come la Russia, rischiano di marginalizzare l'Unione Europea nella risoluzione di conflitti cruciali alle sue porte. Conseguenze marittime Le implicazioni di questo modello si estendono inevitabilmente anche al dominio marittimo, l'arena per eccellenza della proiezione di potenza e del commercio globale. Per decenni, la US Navy ha garantito la libertà di navigazione (FON) come bene pubblico globale. Un approccio strettamente transazionale mette in discussione questo ruolo, ipotizzando uno scenario in cui la sicurezza marittima diventi un servizio a pagamento, con Washington che richiede contributi finanziari diretti ai paesi che più beneficiano della protezione delle rotte. Nei punti di strangolamento (chokepoints) strategici, il potenziale d'azione è enorme. La crisi iraniana ha implicazioni dirette per lo Stretto di Hormuz, da cui transita circa il 20% del petrolio globale, dove un'azione militare potrebbe interrompere i flussi energetici mondiali. Similmente, il conflitto ucraino rende il Mar Nero e le sue rotte del grano un bersaglio geopolitico. La vulnerabilità logistica aumenta esponenzialmente, con le guerre commerciali e le minacce di interruzione delle rotte che si traducono in un immediato aumento dei costi assicurativi e del nolo marittimo. Le operazioni navali congiunte con gli alleati potrebbero diventare condizionali al raggiungimento di obiettivi di spesa militare o a concessioni commerciali, riducendo l'interoperabilità e la fiducia. Infine, questo approccio potrebbe portare a una redistribuzione dei compiti, con la pressione sugli alleati NATO affinché aumentino le loro capacità navali per alleggerire l'impegno americano nel Mediterraneo e nel Baltico. Conseguenze per l’Italia Per un paese come l'Italia, nazione marittima profondamente integrata nel sistema euro-atlantico, le conseguenze di tale paradigma sono dirette e significative. L'impatto più immediato si manifesta in un Mediterraneo sempre più militarizzato. La richiesta di un aumento della spesa per la difesa fino a cifre politicamente insostenibili costringerebbe a scelte drammatiche per il bilancio statale, con la necessità di investire massicciamente in capacità navali per garantire la sorveglianza delle rotte migratorie, la protezione delle infrastrutture energetiche e un presidio autonomo in un'area instabile. L'Italia è inoltre commercialmente esposta in quanto il suo commercio marittimo transita nel Mediterraneo, rendendola vulnerabile a qualsiasi escalation nel Golfo Persico o nel Mar Nero, che avrebbe ripercussioni a catena sul canale di Suez. L'approccio transazionale e imprevedibile di Washington minerebbe inoltre la stabilità del fianco sud dell'Europa. Aree di crisi di primario interesse nazionale, come la Libia, potrebbero diventare oggetto di accordi bilaterali tra gli Stati Uniti e altri attori regionali, scavalcando gli interessi italiani ed europei. Infine, sul piano diplomatico, l'approccio bilaterale statunitense indebolisce l'influenza italiana all'interno dell'UE e rischia di marginalizzare il tradizionale ruolo di mediazione di Roma, stretto in una morsa tra la storica alleanza con Washington e la crescente necessità di una risposta europea coesa per non essere irrilevante. Conclusioni In conclusione, l'analisi di George Friedman delinea un modello diplomatico che può essere definito come "realismo coercitivo", un paradigma che sostituisce la ricerca di stabilità con l'uso strategico dell'imprevedibilità come leva negoziale. Questo approccio segna una rottura epocale con la diplomazia convenzionale, minando la fiducia, indebolendo le istituzioni multilaterali e trasformando la natura stessa delle alleanze in accordi puramente transazionali. Se da un lato ha dimostrato di poter produrre risultati tattici tangibili, come la riforma dei contributi alla NATO, dall'altro genera un'instabilità sistemica estremamente pericolosa, specialmente negli spazi marittimi critici, trasformando le relazioni internazionali in un campo minato. Il suo impatto a lungo termine sull'ordine globale e sulla stabilità strategica rimane un'incognita carica di rischi. Per l'Italia e l'Europa, la lezione è imperativa. È necessario abbandonare ogni residua ingenuità sulla natura dell'impegno americano e sviluppare una maggiore resilienza strategica. Le raccomandazioni sono chiare e urgenti. In primo luogo, potenziare la coesione e l'autonomia strategica dell'Unione Europea, poiché solo un'Europa unita può negoziare da una posizione di forza. In secondo luogo, per l'Italia è cruciale investire in una componente di politica estera e di difesa, soprattutto navale, più autonoma, per garantire la sicurezza nel Mediterraneo e proteggere gli interessi nazionali. Terzo, occorre diversificare le rotte commerciali e le partnership strategiche per mitigare la dipendenza da singoli attori o da choke-points vulnerabili. La sfida risiede nel bilanciare la storica alleanza transatlantica con la lucida e pragmatica tutela degli interessi nazionali in un'era dove la prevedibilità non è più una garanzia. Riferimento. Friedman George, Trump’s Diplomatic Model, GPF Geopolitical Futures, 30 giugno 2025, https://geopoliticalfutures.com/trumps-diplomatic-model/ © RIPRODUZIONE RISERVATA
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