OHi Mag Report Geopolitico nr. 112 Introduzione Il presente saggio si propone di analizzare criticamente le allarmanti questioni sollevate nell'articolo "From barracks to battleships, cost control is MIA" di Mark Thompson, pubblicato su Responsible Statecraft. L'analisi trae spunto dalla prospettiva fresca e disincantata del nuovo Segretario alla Marina statunitense, John Phelan, un outsider proveniente dal settore immobiliare, il cui stupore di fronte ai costi esorbitanti delle infrastrutture militari rispetto a progetti civili di lusso getta una luce impietosa su un sistema di approvvigionamento della difesa in affanno. L'articolo evidenzia una crisi sistemica caratterizzata da sforamenti di budget cronici e ritardi inaccettabili nei programmi navali chiave, mettendo in discussione non solo l'efficienza della spesa pubblica ma anche la capacità operativa e la prontezza strategica delle forze armate americane. Questa sintesi mira a esplorare i fatti riportati, le loro profonde implicazioni geopolitiche, strategiche, marittime e le specifiche conseguenze per l'Italia, delineando un quadro preoccupante ma necessario alla comprensione delle sfide attuali. II Fatti L'articolo di Mark Thompson apre uno squarcio significativo sulle inefficienze che affliggono il sistema di acquisizione del Dipartimento della Difesa statunitense, focalizzandosi in particolare sulle criticità della US Navy. La narrazione prende avvio dall'insediamento, avvenuto il 25 marzo, del nuovo Segretario alla Marina, John Phelan. Figura atipica per l'incarico, Phelan non proviene dai ranghi militari né dall'industria navale, bensì dal mondo dell'imprenditoria immobiliare. Proprio questa sua esperienza esterna gli fornisce un metro di paragone inedito e sconcertante per valutare le pratiche di spesa della Marina. Dopo appena due settimane in carica, Phelan ha pubblicamente espresso il suo sconcerto, citando un esempio emblematico: il costo per alloggio di una nuova caserma militare ammonta a 2,5 milioni di dollari. Un cifra che ha definito "illuminante", soprattutto se confrontata con gli 800.000 dollari per alloggio necessari alla sua precedente azienda per costruire "il miglior hotel delle Hawaii", completo di finiture di lusso come marmi pregiati. Questa discrepanza, che ha suscitato un palpabile nervosismo tra i funzionari della Marina e i rappresentanti dell'industria presenti, non è un caso isolato ma il sintomo di una patologia ben più vasta e radicata che, come sottolinea Thompson, affligge la costruzione navale da anni, con costi che ricadono sui marinai e sui contribuenti. I fatti riportati dall'articolo sono eloquenti e dipingono un quadro a tinte fosche. La portaerei capofila della nuova classe, la USS Gerald R. Ford, simbolo della potenza navale americana, è stata consegnata nel 2017 incompleta e con ben 32 mesi di ritardo rispetto alla tabella di marcia. La sua nave gemella, la USS John F. Kennedy, sta affrontando "sfide critiche" che rendono altamente probabile un rinvio della consegna, originariamente prevista per luglio. La terza unità, la USS Enterprise, se consegnata come attualmente pianificato nel 2030, accumulerà già 28 mesi di ritardo. E i costi non accennano a diminuire, anzi: la JFK è ora proiettata a costare 12,9 miliardi di dollari, l'Enterprise 13,5 miliardi, e la quarta nave della classe, la Doris Miller, attesa per il 2032, raggiungerà i 14 miliardi di dollari – cifre che non includono nemmeno il costo degli aerei imbarcati. Le difficoltà non si limitano alle portaerei. Il programma dei sottomarini lanciamissili balistici a propulsione nucleare della classe Columbia, considerati l'elemento più vitale della triade nucleare nazionale, vede il battello capofila affrontare un ritardo nella consegna stimato fino a 18 mesi. Anche il programma delle nuove fregate classe Constellation, che doveva rappresentare un approccio più efficiente basandosi su un progetto europeo maturo (la FREMM italo-francese), è impantanato. A quasi cinque anni dall'assegnazione del contratto, solo il 10% della prima unità è stato completato. L'ambizioso obiettivo iniziale di mantenere l'85% di comunanza con il design originale è miseramente fallito, scendendo ad appena il 15%, il che ha richiesto una sostanziale e costosa riprogettazione. Di conseguenza, la consegna della prima fregata è slittata dal 2026 al 2029, e il suo costo unitario è lievitato da 1 miliardo a 1,4 miliardi di dollari. Secondo Phelan, la causa principale di questi "fiaschi" risiede nei cosiddetti "requisiti placcati d'oro" ("gold-plated requirements") imposti dalla Marina, ovvero specifiche tecniche eccessivamente complesse e costose, unite ad altre "patologie" del sistema di approvvigionamento. Il Segretario ha mostrato consapevolezza delle resistenze interne, affermando: "Comprendo che la Marina ha i suoi modi di fare le cose, radicati nella tradizione e spesso inflessibili". Ha però aggiunto con fermezza: "Quei modi, quando sono disfunzionali, devono essere affrontati quotidianamente e senza sosta per poter cambiare". Nonostante queste dichiarazioni d'intenti, l'articolo, citando Lauren C. Williams di Defense One, sottolinea un punto debole cruciale: Phelan non ha ancora delineato una strategia concreta su come intenda effettivamente frenare gli sforamenti di costo e i ritardi. La sua battaglia contro le consuetudini consolidate si preannuncia difficile, e resta da vedere se i vertici militari si riveleranno suoi alleati o avversari in questo sforzo riformatore. L'articolo prosegue descrivendo un'iniziativa parallela, apparentemente contraddittoria, proveniente dalla Casa Bianca sotto l'amministrazione Trump (la datazione al 2025 nell'articolo originale crea un'anomalia temporale, ma si riportano i fatti come descritti). Il 9 aprile, il Pentagono avrebbe ricevuto un ultimatum di 90 giorni per identificare programmi di costruzione con sforamenti di budget o ritardi superiori al 15%, destinati a una possibile cancellazione al fine di ottenere "un costo efficacia adeguato". Sorprendentemente, questa mossa è arrivata solo due giorni dopo l'annuncio dello stesso Presidente Trump dell'approvazione di un budget per la difesa per l'anno fiscale 2026 pari a 1 trilione di dollari – un aumento del 18% rispetto agli 850 miliardi correnti. Trump ha giustificato l'aumento con la necessità di "costruire" le forze armate e "essere forti" di fronte alle "forze malvagie", pur affermando di essere "molto attenti ai costi". Thompson definisce questo approccio schizofrenico: è come "dire ai tuoi figli di stringere la cinghia mentre aumenti la loro paghetta". Una tattica che ignora la natura umana e le dinamiche burocratiche del Pentagono. Sebbene l'intento di migliorare l'efficienza sia lodevole, l'ordine presidenziale, letto nel contesto dell'aumento di budget, sembra puntare a spendere di più, per gli stessi tipi di sistemi complessi, ma semplicemente in modo più rapido. La critica di fondo dell'autore è che la vera soluzione non risiede solo nel velocizzare la produzione o tagliare qualche programma marginale, ma nel riconsiderare la domanda stessa: "Finché la nazione non richiederà munizioni e armi più semplici ed economiche, non ne avrà mai abbastanza di nessuna delle due". Una scheda informativa della Casa Bianca ha esplicitamente menzionato nove programmi navali e il nuovo missile balistico intercontinentale Sentinel dell'Air Force tra i "cattivi performer", ma l'elenco dei programmi a rischio potrebbe essere molto più lungo. Infine, l'articolo introduce un ulteriore elemento di preoccupazione nel quadro internazionale: il possibile ritorno delle mine antiuomo. L'invasione russa dell'Ucraina nel 2022 e l'uso massiccio di mine da parte di Mosca, che ha reso l'Ucraina il paese più minato al mondo, sta inducendo alcuni stati NATO confinanti con la Russia (Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania, Polonia) a riconsiderare la loro adesione alla Convenzione di Ottawa del 1997, che ne vieta l'uso, la produzione e lo stoccaggio. Thompson ricorda che potenze chiave come Russia, Stati Uniti, Cina, India e Pakistan non hanno mai aderito al trattato. Critica inoltre l'amministrazione Trump per aver indebolito le operazioni di sminamento tagliando gli aiuti internazionali. Nonostante queste sfide, il trattato ha avuto un impatto significativo, portando all'eliminazione di milioni di mine e riducendone drasticamente l'uso. La prospettiva di un ritiro di alcuni paesi firmatari apre però scenari inquietanti, come dimostra la dichiarazione di un'azienda finlandese pronta a riprendere la produzione per difendere il confine con la Russia. Le conseguenze geopolitiche di questa gestione fallimentare degli approvvigionamenti militari statunitensi sono profonde. L'incapacità di rispettare tempi e costi mina la credibilità degli Stati Uniti come superpotenza e come alleato affidabile. Gli alleati, che spesso dipendono dalle capacità militari americane per la loro sicurezza, potrebbero mettere in dubbio l'effettiva disponibilità di tali capacità quando necessario. Ritardi in programmi strategici come i sottomarini classe Columbia o le nuove portaerei possono essere percepiti dagli avversari, come la Cina e la Russia, come una finestra di vulnerabilità, potenzialmente incoraggiandoli ad azioni più assertive. L'enorme spesa, anche se inefficiente, continua a inviare un segnale di impegno militare, ma la discrepanza tra risorse investite e risultati ottenuti indebolisce l'immagine di potenza americana. Sul fronte delle mine antiuomo, un eventuale arretramento rispetto alla Convenzione di Ottawa rappresenterebbe un duro colpo per il diritto umanitario internazionale e per gli sforzi di controllo degli armamenti, segnalando una tendenza preoccupante verso il riarmo e l'erosione delle norme globali in un contesto di crescente instabilità. Sul piano strategico, le implicazioni sono altrettanto gravi. I ritardi nella consegna di piattaforme essenziali compromettono direttamente la prontezza operativa, la capacità di proiezione di potenza e l'efficacia della deterrenza convenzionale e nucleare. La Marina, ad esempio, fatica a raggiungere gli obiettivi numerici e qualitativi della flotta, con navi obsolete che devono rimanere in servizio più a lungo del previsto. La debacle delle fregate Constellation, nate proprio per aumentare i numeri e la presenza distribuita, è emblematica. L'ossessione per i "requisiti placcati d'oro" porta a sistemi ipersofisticati ma prodotti in numeri insufficienti, difficili da manutenere e vulnerabili in caso di conflitto prolungato. Si profila il rischio di una "forza vuota": tecnologicamente avanzata ma numericamente inadeguata e poco sostenibile. La richiesta di produrre "più velocemente" senza affrontare la complessità alla radice rischia di sacrificare ulteriormente qualità e affidabilità. La mancanza di enfasi su piattaforme più semplici, robuste ed economiche limita la flessibilità strategica e la capacità di generare massa critica, fondamentale negli scenari di competizione tra grandi potenze. Le conseguenze marittime sono il riflesso diretto di queste problematiche strategiche e di approvvigionamento. La US Navy si trova a dover gestire una flotta con un'età media crescente, costi di manutenzione in aumento e tassi di disponibilità operativa ridotti. I cantieri navali, sovraccarichi e spesso inefficienti, faticano a tenere il passo, mettendo a rischio la base industriale della difesa marittima nazionale. Gli enormi sforamenti di budget assorbono risorse preziose che potrebbero essere impiegate per migliorare la manutenzione, aumentare l'addestramento, migliorare le condizioni del personale o acquisire un numero maggiore di navi, magari diversificando il portafoglio con piattaforme meno costose ma più numerose, adatte a compiti di controllo del mare e presenza marittima in aree a minore intensità. L'attuale traiettoria rischia di creare una flotta sbilanciata, eccellente in specifici scenari di alta gamma ma potenzialmente carente nella capacità di sostenere operazioni prolungate e distribuite. Infine, le conseguenze per l’Italia sono tangibili. Come membro fondatore della NATO e partner industriale in importanti programmi di difesa (come l'F-35, anch'esso afflitto da problemi di costo e gestione), l'Italia è direttamente influenzata dallo stato di salute dell'apparato militare statunitense. Una US Navy meno presente o meno capace nel Mediterraneo, ad esempio, implicherebbe maggiori responsabilità e oneri per la Marina Militare italiana e per le altre marine europee nel garantire la sicurezza marittima regionale. Le difficoltà e i costi crescenti dei sistemi d'arma americani possono condizionare le scelte future dell'Italia in materia di acquisizioni per la Difesa, spesso orientate verso tecnologie statunitensi o sistemi sviluppati in collaborazione. Sebbene un'eventuale riforma efficace negli USA potrebbe portare a benefici indiretti, l'attuale scenario suggerisce piuttosto incertezza e potenziali aumenti dei costi anche per gli alleati. Inoltre, la questione delle mine antiuomo tocca l'Italia, paese fortemente impegnato nella promozione della Convenzione di Ottawa e nelle operazioni di sminamento umanitario. Un indebolimento di questa norma internazionale contrasta con la politica estera italiana e desta preoccupazione per la stabilità globale e regionale. Conclusioni e Raccomandazioni L'analisi dell'articolo di Mark Thompson mette a nudo una crisi profonda e sistemica nel cuore della potenza militare americana: un apparato di approvvigionamento che, nonostante budget faraonici, si dimostra incapace di rispettare tempi e costi, generando frustrazione, sprechi e dubbi sulla reale efficacia operativa. Il caso della Marina Militare, con i suoi programmi navali chiave afflitti da ritardi pluriennali e costi esorbitanti, è emblematico di questa disfunzione. La contraddizione tra l'annuncio di tagli ai programmi inefficienti e l'approvazione simultanea di un budget record evidenzia la mancanza di una strategia coerente e la difficoltà di affrontare le cause strutturali del problema: una cultura burocratica incline alla complessità fine a se stessa ("gold-plated requirements"), processi decisionali farraginosi e un complesso militare-industriale con dinamiche proprie. Le raccomandazioni che scaturiscono da questa analisi convergono sulla necessità improrogabile di una riforma radicale, che vada oltre i palliativi. È essenziale ripensare l'approccio alla definizione dei requisiti militari, introducendo un maggiore pragmatismo e privilegiando un bilanciamento tra piattaforme tecnologicamente avanzate e sistemi più semplici, affidabili, producibili in massa e sostenibili nel lungo periodo. Serve una maggiore trasparenza e accountability, sia all'interno del Pentagono che nei rapporti con l'industria della difesa. Senza un cambiamento culturale profondo e una volontà politica ferma e duratura, gli Stati Uniti rischiano di continuare a investire somme colossali in una forza armata sempre più costosa ma potenzialmente meno capace di rispondere alle sfide del XXI secolo, con serie ripercussioni sulla sicurezza nazionale, sulla solidità delle alleanze – inclusa quella con l'Italia – e sulla stabilità internazionale. Riferimento: Mark Thompson, From barracks to battleships, cost control is MIA, Responsible Statecraft (originariamente pubblicato su The Bunker, Project on Government Oversight), 18 Aprile 2025. https://responsiblestatecraft.org/the-bunker-2671793976/ © RIPRODUZIONE RISERVATA
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