I contributi sono diretta responsabilità della redazione di OHiMAG e ne rispecchiano le idee. La riproduzione, totale o parziale, è autorizzata a condizione di citare la fonte. Le informazioni qui riportate sono frutto di lettura e analisi delle seguenti fonti: Cesmar "Sintesi di Geopolitica e Geoeconomia (del giorno)"; Notizie riportate dai principali siti che si occupano di politica internazionale, geopolitica e strategia marittima (ISPI, Foreign Affairs, Inside Over, Analisi Difesa, Limes, Le Grand Continent, Atlantic Council, Chatham House, IISS, CSIS, The National Interest, War o the rocks, Responsible Statecraft, IAI, IARI, CIMSEC, Formiche.net, GCaptain, The global eye, Center for maritime strategy, Naval News, Shipmag, Navylookout, Navytimes, Rand, il Sussidiario, GeopoliticaInfo, Starmag) e dalle principali agenzie di stampa internazionali (Associated Press, Reuters, AFP, ANSA, DPA, TASS, Xinhua, etc.) relative al giorno precedente quello indicato nel titolo L'Escalation nel Golfo e la Crisi dell'Ordine Globale Questa analisi è stata preparata in collaborazione con cesmar.it La sintesi non rappresenta un'analisi originale, ma una riorganizzazione strutturata delle informazioni raccolte. Introduzione
Il 24 giugno 2025 si apre su uno scacchiere globale infiammato, il cui epicentro è la drammatica escalation militare nel Golfo Persico. Il confronto diretto tra Iran, Israele e Stati Uniti, dopo settimane di tensioni crescenti, ha raggiunto un punto di non ritorno, per poi essere apparentemente arrestato da un'inaspettata svolta diplomatica. L'operazione israeliana "Rising Lion" ha segnato un cambio di paradigma, colpendo non solo siti nucleari ma anche infrastrutture energetiche strategiche iraniane, mossa a cui ha fatto seguito un massiccio bombardamento americano e una calcolata rappresaglia di Teheran. La sintesi che segue, basandosi su un corpus di reportage e analisi di fonti come InsideOver, Foreign Affairs e Reuters, si propone di decostruire la cronaca di questi eventi e di esplorarne le profonde conseguenze. Lungi dal rappresentare un isolato conflitto regionale, questa crisi agisce da catalizzatore, mettendo a nudo una rischiosa riconfigurazione della strategia globale americana e accelerando la frammentazione di un ordine internazionale già precario. L'annuncio a sorpresa di un cessate il fuoco da parte del Presidente Donald Trump, dopo aver personalmente ordinato un attacco di vasta portata, non chiude la crisi, ma ne rivela la complessità. Questa apparente contraddizione tra l'uso brutale della forza e l'improvvisa apertura diplomatica è la chiave di lettura per comprendere le nuove dinamiche del potere mondiale. L'analisi che segue esaminerà le implicazioni geopolitiche, strategiche e marittime di questi eventi, valutandone infine l'impatto per un attore come l'Italia, profondamente integrato in un'architettura di sicurezza euro-atlantica ora sottoposta a uno stress test senza precedenti. Il saggio argomenterà che la "guerra dei dodici giorni" non è un episodio, ma il sintomo di una transizione epocale, un mondo in cui le regole della guerra, della diplomazia e del commercio vengono riscritte in tempo reale. I fatti
Conseguenze geopolitiche L'escalation militare nel Golfo Persico del giugno 2025 ha innescato una profonda e immediata riconfigurazione geopolitica globale, le cui onde d'urto hanno scosso le fondamenta delle alleanze consolidate in tutti i principali teatri operativi. Lungi dal riaffermare un'egemonia unipolare, l'azione militare ha agito da catalizzatore per l'accelerazione di un ordine mondiale più frammentato, polarizzato e pericolosamente instabile. L'epicentro di questo sisma geostrategico è, naturalmente, il Mediterraneo Allargato. Qui, il conflitto diretto tra Israele e Iran, con il coinvolgimento attivo degli Stati Uniti, ha dimostrato il fallimento della deterrenza convenzionale. Come avvertono lucidamente Hussein Agha e Robert Malley su Foreign Affairs, l'apparente successo militare occidentale rischia di essere un "trionfalismo" miope e pericoloso. Ignorare le profonde correnti storiche di umiliazione e rabbia che animano la regione potrebbe generare una contro-reazione asimmetrica e terroristica, rendendo l'intero arco di crisi, dal Levante al Nord Africa, ancora più insicuro. In questo contesto, la Russia ha abilmente sfruttato la situazione, assumendo una postura ambivalente ma strategicamente vantaggiosa. Pur condannando formalmente gli attacchi come una violazione del diritto internazionale, si è immediatamente posizionata come mediatore indispensabile, cercando di capitalizzare la crisi per rafforzare la propria influenza nel Mar Nero e nel Caucaso, a scapito di un'Europa apparsa divisa e strategicamente irrilevante. La crisi si è riverberata con forza sull'Heartland euro-asiatico, dove ha avuto l'effetto di cementare l'asse strategico tra Russia, Iran e Cina. L'incontro a Mosca tra il ministro degli Esteri iraniano e il presidente Putin non è stato un semplice atto di solidarietà, ma la riaffermazione di un fronte comune contro quello che i tre Paesi percepiscono come un accerchiamento e una minaccia esistenziale da parte dell'Occidente. Per la Russia, la destabilizzazione del Medio Oriente rappresenta un indubbio vantaggio tattico, poiché distoglie l'attenzione e le preziose risorse militari e finanziarie occidentali dal fronte ucraino. Per la Cina, la situazione è più complessa: se da un lato la crisi mette a rischio la sicurezza delle sue vitali rotte energetiche dal Golfo, dall'altro evidenzia in modo palese i limiti del potere americano e la sua crescente imprevedibilità. Questa percezione di inaffidabilità americana sta avendo conseguenze devastanti nell'Indopacifico. Come analizzato da Yuen Foong Khong e Joseph Chinyong Liow, l'unilateralismo aggressivo mostrato da Washington nel Golfo sta erodendo la fiducia degli alleati regionali. I Paesi del Sud-est asiatico, pur nutrendo una profonda diffidenza storica nei confronti di Pechino, stanno lentamente ma inesorabilmente "scivolando verso la Cina", attratti dalla sua prossimità geografica e dalla sua crescente influenza economica. La nuova dottrina strategica americana della "prioritizzazione", descritta da Jennifer Lind e Daryl G. Press, si rivela così paradossale: nel tentativo di concentrare le forze contro la Cina, le azioni statunitensi in altri teatri stanno di fatto indebolendo il fronte anti-cinese. Questo paradosso si estende anche al Teatro operativo Boreale-Artico, dove un potenziale disimpegno americano dall'Europa creerebbe un vuoto di sicurezza che la Russia è pronta a colmare, aumentando il suo controllo militare su rotte marittime di crescente importanza strategica. Infine, le nazioni del Teatro operativo Australe-Antartico subiscono passivamente le conseguenze di questa instabilità globale. L'America Latina, l'Africa meridionale e l'Australia, profondamente integrate nelle catene globali di valore, vedono aumentare la loro vulnerabilità economica e sono costrette a navigare in un ambiente internazionale sempre più polarizzato, cercando di mantenere una difficile neutralità per proteggere i propri interessi. Conseguenze strategiche Sul piano strategico, l'escalation militare del giugno 2025 ha inaugurato una nuova e pericolosa era, segnata da due tendenze parallele ma profondamente interconnesse che stanno ridefinendo la natura della guerra e della grande strategia globale. La prima è il ruolo strategico "dell'energia". L'attacco israeliano a un'infrastruttura civile strategica come il giacimento di South Pars costituisce un precedente epocale. L'energia non è più un obiettivo collaterale, ma un centro di gravità economico primario, la cui distruzione è concepita per infliggere danni più duraturi di un'azione puramente militare. Questo approccio ridefinisce la natura dei conflitti moderni, spingendoli verso una forma di guerra ibrida totale in cui la distinzione tra obiettivi civili e militari si assottiglia pericolosamente, aumentando esponenzialmente i rischi per la stabilità economica globale. La seconda, e forse più significativa, tendenza è l'adozione esplicita da parte degli Stati Uniti di una dottrina di "prioritizzazione". Come analizzato da esperti come Lind e Press, questa strategia mira a disimpegnare Washington da teatri considerati secondari, come l'Europa e il Medio Oriente, per concentrare tutte le risorse sulla competizione sistemica con la Cina. In quest'ottica, il massiccio attacco all'Iran non va letto come l'inizio di un nuovo, lungo impegno, ma, paradossalmente, come un'operazione punitiva e brutale volta a eliminare una minaccia immediata per poi potersi ritirare, lasciando la gestione della stabilità regionale agli attori locali. Questa nuova realtà strategica sta già producendo effetti tangibili, agendo come un potente acceleratore per l'innovazione tecnologica nell'industria della difesa globale e spingendo il Pentagono a una profonda ristrutturazione dei suoi vertici, con nomine chiave per la 5ª e 7ª Flotta per gestire questo nuovo paradigma di crisi simultanee. Tuttavia, questa audace strategia comporta rischi enormi. Come avvertono analisti come Dana Stroul, essa sottovaluta la capacità iraniana di una rappresaglia asimmetrica e a lungo termine. Inoltre, un'eccessiva fiducia israeliana, non più frenata da un partner americano desideroso di disimpegnarsi, potrebbe innescare nuove e incontrollabili escalation, vanificando l'obiettivo strategico di Washington. Conseguenze marittime Le conseguenze marittime della crisi del giugno 2025 si sono condensate sulla vulnerabilità esistenziale dello Stretto di Hormuz, agendo come un potente rivelatore delle fragilità sistemiche del commercio e della sicurezza globale. Sebbene Teheran non abbia messo in atto un blocco fisico del vitale corridoio, la sola minaccia credibile di poterlo fare ha avuto effetti economici devastanti e ha innescato una profonda riconfigurazione strategica nel settore. L'impatto più immediato è stato economico. La percezione del rischio è cambiata in modo permanente e, come riportato da Reuters, i costi delle coperture assicurative per le navi in transito nel Golfo Persico sono raddoppiati quasi istantaneamente. Questo ha di fatto istituito una "tassa sul rischio" permanente che grava sull'intero commercio globale, con un impatto diretto sui costi di trasporto, sulle catene di approvvigionamento e, in ultima analisi, sull'inflazione a livello mondiale. Di fronte a questa nuova realtà, armatori e compagnie energetiche sono stati costretti a riconsiderare le loro strategie operative, cercando attivamente rotte alternative – per quanto più lunghe e costose – e accelerando la diversificazione delle fonti di approvvigionamento per ridurre la dipendenza da un'area ad altissima instabilità. A livello strategico, la crisi ha riaffermato l'importanza cruciale del potere navale per garantire la libertà di navigazione. Tuttavia, ha anche messo a nudo una realtà scomoda: gli Stati Uniti faticano sempre più a fornire da soli questo "bene pubblico globale". Questo vuoto di capacità e di volontà politica sta spingendo altre nazioni a investire massicciamente nelle proprie flotte. La crisi ha dato un nuovo e potente impulso a programmi di sviluppo navale in tutto il mondo, non solo tra le grandi potenze, ma anche tra attori emergenti come il Perù. Cantieri navali come l'italiana Fincantieri vedono aprirsi nuovi mercati per le loro piattaforme tecnologicamente avanzate, in particolare per i sottomarini, considerati strumenti chiave per la deterrenza e il controllo marittimo. In definitiva, la crisi di Hormuz ha segnato la fine dell'era in cui la sicurezza marittima poteva essere data per scontata. Oggi è diventata una priorità globale costosa e un campo di competizione strategica e industriale sempre più acceso, il cui esito ridefinirà le mappe del potere navale ed economico del XXI secolo. Conseguenze per l’Italia Per l'Italia, le ripercussioni della crisi del giugno 2025 sono dirette, multidimensionali e profondamente allarmanti, colpendo simultaneamente la sua stabilità economica, la sicurezza nazionale e le fondamenta stesse della sua postura geopolitica. Sul piano economico, la vulnerabilità del sistema-Paese è massima. In quanto nazione manifatturiera e grande importatrice di energia, l'Italia è direttamente esposta all'instabilità dei prezzi degli idrocarburi. La minaccia allo Stretto di Hormuz, unita all'impennata dei costi di trasporto e assicurazione marittima, si traduce in una minaccia diretta alla sicurezza degli approvvigionamenti energetici e in una potente spinta inflazionistica che rischia di soffocare la competitività dell'intera economia nazionale. Sul piano della sicurezza, la posizione geografica pone l'Italia sulla linea del fronte di questo "Mediterraneo Allargato" in ebollizione. L'instabilità cronica in Medio Oriente, esacerbata dal potenziale di allargamento del conflitto e da una possibile deriva verso forme di violenza asimmetrica, si traduce in minacce dirette e tangibili. Queste includono la gestione di flussi migratori incontrollati e il rischio crescente di infiltrazioni terroristiche, pericoli che la crisi attuale non fa che acuire in modo significativo. Tuttavia, la conseguenza più profonda è di natura geopolitica e strategica. L'azione unilaterale dell'amministrazione americana e le crescenti fratture in seno alla NATO stanno erodendo l'architettura di sicurezza su cui l'Italia ha fondato la sua politica estera e di difesa per decenni. Il pilastro della sicurezza transatlantica, un tempo considerato incrollabile, oggi appare indebolito e imprevedibile. L'Italia si trova così di fronte a un dilemma strategico senza precedenti, che impone una riflessione urgente e non più procrastinabile sulla necessità di diventare un attore protagonista nella costruzione di una reale ed efficace autonomia strategica europea. Non si tratta più di una scelta opzionale, ma di un imperativo esistenziale per poter tutelare i propri interessi nazionali in un mondo divenuto strutturalmente più instabile e pericoloso. Conclusioni In conclusione, la crisi esplosa nel Golfo Persico nel giugno 2025 trascende la dinamica di un conflitto regionale per assurgere a simbolo di una frattura sistemica dell'ordine globale. L'attacco congiunto israelo-statunitense, pur dimostrando una schiacciante superiorità militare, ha inferto un colpo potenzialmente fatale alla diplomazia e al diritto internazionale, legittimando l'uso della forza preventiva contro infrastrutture critiche, mentre la risposta ponderata dell'Iran, unita alla minaccia di chiudere lo Stretto di Hormuz, ha rivelato come anche attori militarmente inferiori possano esercitare un'enorme leva geoeconomica, evidenziando la fragilità di un sistema globale interconnesso ma privo di una governance efficace. La vera novità strategica emersa è l'adozione esplicita da parte degli Stati Uniti di una dottrina di "prioritizzazione", che mira a disimpegnare Washington da teatri secondari per concentrarsi sulla competizione con la Cina. Il cessate il fuoco annunciato da Trump, in quest'ottica, non appare come l'inizio di una pace duratura, ma come una mossa tattica per chiudere un fronte scomodo e proseguire con questo riallineamento strategico, che rischia però di creare pericolosi vuoti di potere e di alienare alleati storici. In questo quadro, l'Europa ha confermato la sua marginalità strategica, mentre la Russia ha sapientemente sfruttato la crisi per rafforzare la propria influenza, proponendosi come mediatore. Di fronte a questo scenario, le raccomandazioni che emergono sono tanto chiare quanto urgenti. A livello internazionale, è imperativo ricostruire canali di dialogo credibili per evitare che la spirale di ritorsioni diventi incontrollabile. Per l'Occidente, e in particolare per l'Europa, la lezione è netta: l'era della delega della sicurezza è terminata. È indispensabile tradurre il concetto di "autonomia strategica" da ambizione a realtà, attraverso investimenti mirati nella difesa (non quindi legati solo ad aumento di investimenti fine a se stessi, ma tesi a qualità, addestramento, bilanciamento e coordinamento), una politica estera più coesa e volta a definire una cornice di sicurezza credibile ed efficace (senza la quale ha poco senso parlare di difesa comune) e la capacità di proteggere autonomamente i propri interessi vitali, a partire dalla sicurezza energetica e marittima. Infine, per l'Italia, ciò si traduce nella necessità di assumere un ruolo proattivo e da protagonista nella costruzione di questa nuova architettura di sicurezza europea, consapevole che la stabilità del Mediterraneo è ormai una responsabilità diretta e non più delegabile a un alleato sempre più distante e imprevedibile.
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