OHi Mag Report Geopolitico nr. 156 Fonte di Riferimento:
Introduzione Il volto della guerra navale sta subendo una trasformazione radicale, guidata non tanto da nuove piattaforme quanto da una rivoluzione silenziosa e digitale nel campo dell'addestramento. Al centro di questo cambiamento epocale, come documentato da un'approfondita serie di analisi tecniche sul sito specializzato navylookout.com, si colloca la Royal Navy britannica, che sta investendo in modo massiccio in un nuovo paradigma formativo basato su "spazi di battaglia sintetici" e "gemelli digitali". Questa nuova ondata tecnologica, incarnata dal sistema MIMESIS di BAE Systems e dal programma SPARTAN della marina, non si limita a perfezionare le simulazioni esistenti, ma mira a creare un ambiente virtuale iper-realistico in cui i sistemi di combattimento reali interagiscono con minacce simulate con una fedeltà senza precedenti. L'obiettivo è forgiare una forza navale più flessibile, letale e adattabile, in grado di affrontare le minacce del XXI secolo prima ancora di salpare. Questo saggio si propone di analizzare in profondità i dettagli tecnici di questa innovazione, per poi esplorarne le vaste e complesse conseguenze a livello geopolitico, strategico, marittimo e, infine, le implicazioni per un alleato chiave come l'Italia, delineando il profilo di una nuova era per il potere navale. I fatti raccontati da Navy Lookout La base di questa rivoluzione addestrativa è la creazione di un ambiente sintetico avanzato costruito attorno ai "gemelli digitali" bellici (warfare digital twins). Come descritto su navylookout.com, il sistema MIMESIS di BAE Systems rappresenta il cuore tecnologico di questo approccio. A differenza dei simulatori tradizionali, che offrono un'approssimazione del comportamento dei sistemi, MIMESIS integra il codice operativo e il software dei sistemi di combattimento reali all'interno di una rete sintetica. Ciò significa che i sensori, i sistemi di comando e le armi vengono stimolati come se stessero vivendo una minaccia reale. Il gemello digitale di una fregata Type 23 o di un cacciatorpediniere Type 45 non è un semplice modello 3D, ma una replica fedele che esegue lo stesso software dei radar, dei sonar o dei sistemi di gestione del combattimento (CMS) della nave vera. L'ambiente sintetico "inganna" il software facendogli credere di trovarsi in mare, reagendo a minacce simulate con un comportamento identico a quello che avrebbe in una situazione operativa reale. Questo permette di simulare l'intera "kill chain", dal rilevamento all'ingaggio, con un livello di realismo irraggiungibile dai metodi tradizionali. La validità del concetto è stata dimostrata nel 2023 durante un'esercitazione a Portsmouth, dove le sale operative della portaerei HMS Queen Elizabeth e delle sue navi di scorta HMS Kent e HMS Diamond sono state messe in rete tramite MIMESIS, addestrandosi congiuntamente in uno scenario interamente sintetico pur essendo ormeggiate in porto. In parallelo, la Royal Navy sta sviluppando la sua visione strategica sotto il nome di Progetto SPARTAN. Non si tratta di un singolo prodotto, ma di un programma a lungo termine per trasformare l'addestramento collettivo della flotta di superficie, fondendo risorse reali e virtuali. SPARTAN è organizzato in quattro fasi (Tranche). La prima, già finanziata e in corso, si concentra sull'addestramento a terra degli stati maggiori (battle staff) per gestire formazioni complesse come un gruppo da battaglia di una portaerei (Carrier Strike Group - CSG), con l'obiettivo di raggiungere la piena capacità operativa nel 2028. Le fasi successive mirano a creare un hub sintetico per l'addestramento collettivo, a implementare una capacità di addestramento a bordo (Platform Enabled Training Capability - PETC) che consenta alle navi in navigazione di addestrarsi in scenari virtuali senza interferire con le operazioni reali, e infine a integrare pienamente simulatori a terra e in mare, velivoli e sistemi alleati. Questo approccio è supportato da un'architettura software aperta (Shared Infrastructure), che consente aggiornamenti rapidi e l'integrazione di "app" sviluppate da terze parti, garantendo un'evoluzione continua e a costi ridotti. Conseguenze Geopolitiche L'adozione di questa tecnologia proietta l'immagine di una Royal Navy e, per estensione, del Regno Unito, come nazione tecnologicamente all'avanguardia e pienamente capace di affrontare le minacce contemporanee. In un'arena globale caratterizzata da una crescente competizione tra potenze, la capacità di addestrarsi in modo realistico, ripetuto e a basso costo contro minacce di alto livello (come missili ipersonici o sciami di droni, difficilmente replicabili dal vivo) funge da potente deterrente. Comunica a potenziali avversari un livello di preparazione e letalità che va oltre il semplice numero di piattaforme possedute. La capacità di simulare operazioni in aree geopoliticamente sensibili, come il Mar Rosso o il Mar Cinese Meridionale, senza dover dispiegare fisicamente le navi, permette di preparare gli equipaggi riducendo al contempo i rischi di escalation involontaria. Inoltre, questa architettura di addestramento sintetico è intrinsecamente collaborativa. Esercitazioni come "Virtual Warrior" hanno già dimostrato la capacità di integrare unità alleate, come un cacciatorpediniere americano di classe Arleigh Burke, all'interno dello stesso ambiente virtuale. In futuro, questo modello permetterà esercitazioni multinazionali complesse in cui le navi di diverse nazioni potranno addestrarsi insieme connettendosi via satellite dai loro porti di origine o mentre sono in navigazione in diverse parti del mondo. Ciò rafforza enormemente la coesione e l'interoperabilità all'interno di alleanze come la NATO. La standardizzazione dei protocolli e delle architetture aperte diventa un pilastro della difesa collettiva, consentendo agli alleati di sviluppare tattiche, tecniche e procedure comuni in un ambiente sicuro e controllato. Per il Regno Unito, posizionarsi come leader in questo settore significa rafforzare il proprio ruolo di perno all'interno delle alleanze occidentali, offrendo una piattaforma addestrativa avanzata che attira la partecipazione e la collaborazione internazionale. Conseguenze Strategiche Dal punto di vista strategico, il cambiamento più significativo è il drastico aumento della prontezza operativa. Tradizionalmente, un gruppo navale necessitava di un periodo di "shakedown" in mare per amalgamare gli equipaggi e affinare le procedure. Grazie a esercitazioni come "Virtual Warrior", questo processo di integrazione avviene a terra, prima della partenza. Come evidenziato da navylookout.com, il Carrier Strike Group britannico ha potuto raggiungere la piena coesione e procedere verso un'esercitazione complessa nel Mediterraneo appena una settimana dopo aver lasciato Portsmouth, un tempo prima impensabile. Questa capacità di raggiungere il picco operativo più rapidamente si traduce in una forza più reattiva e disponibile. Un altro vantaggio strategico risiede nella capacità di apprendimento e adattamento accelerati. Ogni interazione nell'ambiente sintetico può essere registrata, analizzata e rivista. Gli errori possono essere corretti e gli scenari ripetuti con leggere variazioni per testare diverse risposte tattiche. Le lezioni apprese su una nave possono essere rapidamente integrate nel gemello digitale e distribuite all'intera flotta, creando un ciclo di miglioramento continuo e molto più rapido rispetto al passato. Questo abilita anche lo "sviluppo a spirale" di future piattaforme. Nuovi sistemi d'arma, radar o software, come quelli previsti per i futuri cacciatorpediniere Type 83, possono essere testati e ottimizzati sul gemello digitale prima ancora che venga posata la prima chiglia, informando le decisioni di approvvigionamento, riducendo i rischi tecnologici e accorciando i tempi di sviluppo. L'uso dell'Intelligenza Artificiale, come il monitoraggio dei "pattern of life" per identificare comportamenti anomali nel traffico marittimo, può essere integrato e testato in questo ambiente, preparando la marina a gestire flussi di dati enormi e a prendere decisioni più rapide e accurate. Conseguenze Marittime Per le operazioni navali quotidiane, le implicazioni sono profonde e trasformative. La capacità di condurre addestramenti complessi mentre la nave è in transito o persino in manutenzione (PETC) rivoluziona l'uso del tempo. Una fregata in navigazione nell'Atlantico può addestrarsi a difendersi da un attacco missilistico nel Mar Rosso, mantenendo la massima prontezza per il teatro operativo di destinazione. Questo non solo massimizza l'efficienza addestrativa, ma riduce anche in modo significativo i costi e l'usura delle piattaforme reali. Lanciare missili, impiegare aerei e muovere intere flotte per esercitazioni dal vivo ha costi proibitivi e un impatto logistico enorme. L'ambiente sintetico annulla queste limitazioni. Inoltre, permette di praticare tattiche altamente classificate senza il rischio di essere osservati da potenziali avversari. La tecnologia influisce anche sul lavoro sul ponte di comando. L'esempio degli occhiali a realtà aumentata Microsoft HoloLens, testati per l'Ufficiale di Guardia, mostra come i dati dei sensori della nave possano essere sovrapposti direttamente al suo campo visivo. L'ufficiale può vedere informazioni su altre navi, aerei o punti di interesse senza dover distogliere lo sguardo dal mondo esterno per guardare una console, migliorando drasticamente la consapevolezza situazionale e la velocità decisionale. Si tratta di un'integrazione uomo-macchina che ridefinisce le operazioni di base. L'intera filosofia si basa su quello che navylookout.com definisce un modello "evergreen": per ogni nave esiste un gemello digitale centrale, costantemente aggiornato in linea con la configurazione reale dell'unità. Ogni modifica hardware o software viene prima testata e validata sul gemello, de-rischiando l'integrazione sulla nave fisica e garantendo che l'addestramento sia sempre perfettamente allineato con le capacità reali della piattaforma. Conseguenze per l'Italia Sebbene gli articoli analizzati non menzionino direttamente l'Italia, le conseguenze per la Marina Militare e per l'industria della difesa nazionale sono chiare e dirette. In qualità di membro fondatore della NATO e di principale potenza marittima nel Mediterraneo, l'Italia opera costantemente a fianco della Royal Navy e di altre marine alleate. L'avanzamento tecnologico britannico stabilisce un nuovo standard di interoperabilità. Per partecipare efficacemente alle future esercitazioni e operazioni congiunte, che saranno sempre più basate su queste reti sintetiche, la Marina Militare dovrà dotarsi di capacità analoghe. L'alternativa è il rischio di un declassamento operativo, venendo relegati a un ruolo secondario in coalizioni tecnologicamente avanzate. Questa è sia una sfida che un'opportunità per l'industria della difesa italiana. Aziende come Leonardo e Fincantieri, che sono i pilastri del sistema di combattimento navale italiano, si trovano di fronte alla necessità di accelerare lo sviluppo di tecnologie simili, dai sistemi di gestione del combattimento basati su architetture aperte ai propri ambienti di simulazione e gemelli digitali. La collaborazione con partner europei, inclusa BAE Systems, potrebbe diventare cruciale per condividere costi e know-how, garantendo che le future piattaforme navali europee, come i cacciatorpediniere del programma Horizon o le fregate FREMM, possano evolvere lungo un percorso comune. Il Mediterraneo, con la sua complessità e la vicinanza di molteplici attori statali e non statali, è un teatro ideale per l'applicazione di queste metodologie addestrative, che permettono di simulare scenari complessi e di prepararsi a un ambiente operativo imprevedibile. L'Italia non può permettersi di rimanere indietro in questa corsa all'innovazione, pena la perdita di rilevanza strategica e industriale nel settore navale. Conclusioni In definitiva, l'investimento della Royal Navy negli spazi di battaglia sintetici e nei gemelli digitali non rappresenta un semplice aggiornamento tecnologico, ma un profondo cambiamento di paradigma strategico, operativo e culturale. Come emerge chiaramente dall'analisi di navylookout.com, i benefici sono immensi: maggiore realismo ed efficacia addestrativa, riduzione dei costi e dei rischi, accelerazione dello sviluppo di nuove capacità e un significativo miglioramento della prontezza operativa e dell'interoperabilità con gli alleati. Questa transizione digitale permette di forgiare marinai e comandanti in grado di dominare la complessità della guerra moderna, offrendo un vantaggio competitivo decisivo. Tuttavia, il successo di questa rivoluzione non è scontato. Gli stessi articoli evidenziano che gli ostacoli maggiori non sono di natura tecnica, bensì strutturale e culturale all'interno della stessa Marina. Per capitalizzare appieno questo potenziale, è fondamentale che la leadership militare e politica, non solo nel Regno Unito ma anche in nazioni alleate come l'Italia, adotti una visione olistica. La raccomandazione principale è di superare i "silos" organizzativi tra chi si occupa di generazione delle forze, addestramento e sviluppo delle capacità, per creare una governance coerente che guidi il programma. È essenziale investire non solo nella tecnologia, ma anche nella formazione del personale che dovrà gestire e sfruttare questi nuovi strumenti. Infine, è cruciale insistere su architetture aperte e standard comuni a livello di alleanza. Solo così il campo di battaglia sintetico potrà diventare un vero spazio di addestramento collettivo per la NATO, trasformando una rivoluzione nazionale in un vantaggio strategico per l'intero Occidente e garantendo che le nostre marine rimangano un passo avanti rispetto alle minacce del futuro. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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OHi Mag Report Geopolitico nr. 155 Introduzione La stabilità dell'Oceano Indiano Occidentale (OIO), un tempo considerata una questione relegata a dinamiche regionali, rappresenta oggi un elemento cruciale dello scacchiere geostrategico globale. Per l'Italia e per l'Europa, la sicurezza di questo vasto dominio marittimo, che si estende dal Corno d'Africa fino alle coste asiatiche, non è più un interesse secondario, ma una condizione indispensabile per la propria prosperità e sicurezza. Questa consapevolezza è al cuore della visione strategica italiana del "Mediterraneo Allargato", un paradigma che riconosce come la stabilità del bacino sia inscindibilmente legata a quella delle aree adiacenti. Il presente saggio, traendo spunto e rielaborando le analisi contenute in documenti strategici e rapporti operativi di esperti del settore, si propone di delineare un quadro completo delle sfide che caratterizzano questa regione. Partendo dalla narrazione dei fatti e delle minacce concrete, si analizzeranno le profonde conseguenze geopolitiche, strategiche e marittime di tale instabilità, con un focus specifico sulle implicazioni per l'Italia e sul ruolo proattivo svolto dalla sua Marina Militare. L'obiettivo è offrire una lettura chiara, sintetica ed esaustiva di una delle aree più complesse e vitali del nostro tempo. Analisi delle Dinamiche e delle Minacce Regionali L'Oceano Indiano Occidentale è una vera e propria "giugulare" del commercio mondiale, un corridoio marittimo attraverso cui transita circa l'80% del petrolio globale e una quota preponderante dei traffici commerciali tra Asia, Africa ed Europa. La sua importanza strategica è amplificata dalla presenza di choke point fondamentali come lo Stretto di Bab el-Mandeb e lo Stretto di Hormuz. Tuttavia, questa centralità economica è messa a repentaglio da un ecosistema criminale complesso e da un'intensificazione delle tensioni geopolitiche, alimentate da instabilità statale, vulnerabilità socioeconomiche e debolezza della governance costiera. Come evidenziato dai rapporti del Regional Maritime Information Fusion Centre (RMIFC), il numero di incidenti legati alla sicurezza marittima è in costante aumento, passando da 640 eventi nel 2017 a 1145 nel 2024, a testimonianza di un deterioramento progressivo del quadro securitario. Le minacce che affliggono la regione sono molteplici e spesso interconnesse, creando un circolo vizioso di instabilità. La minaccia più recente e dirompente è rappresentata dagli attacchi cinetici contro il naviglio mercantile nel Mar Rosso, perpetrati principalmente dai ribelli Houthi a partire dal novembre 2023. Inizialmente diretti contro navi legate a interessi israeliani, gli attacchi si sono estesi a imbarcazioni di bandiera statunitense e britannica e, infine, a naviglio senza affiliazioni chiare. Le modalità operative sono variegate e tecnologicamente avanzate: dall'uso di droni e missili balistici antinave all'impiego di barchini veloci armati. Sebbene l'efficacia tattica di questi attacchi sia stimata inferiore al 10%, il loro impatto strategico è stato enorme, causando vittime, gravi danni alle navi e una profonda destabilizzazione delle rotte commerciali. Nel solo 2024, questo tipo di violenza ha rappresentato 128 dei 175 atti registrati in mare, un aumento esponenziale rispetto ai 69 dell'anno precedente. In parallelo, e potenzialmente favorita dalla diversione di assetti navali internazionali verso il Mar Rosso, si è assistito a una preoccupante recrudescenza della pirateria, in particolare nel bacino somalo. Sebbene i livelli non siano paragonabili al picco del 2008-2013, nel 2024 sono stati registrati 18 incidenti, un forte aumento che ha riaperto una finestra di opportunità per le reti piratesche. Il loro modus operandi prevede il dirottamento di pescherecci (dhow) da utilizzare come "navi madre" per lanciare attacchi contro mercantili più grandi fino a 600 miglia nautiche dalla costa, spesso approfittando dell'assenza di team di sicurezza armati a bordo (PAST). Accanto a queste minacce cinetiche, persistono con vigore i traffici illeciti. Il narcotraffico, pur registrando un calo nelle quantità sequestrate nel 2024 (42 tonnellate contro le oltre 100 degli anni precedenti), rimane un fenomeno endemico con 127 incidenti. Questo paradosso si spiega con il ridotto pattugliamento delle rotte della droga, come la "Smack Track", a causa della crisi nel Mar Rosso. L'Oceano Indiano rimane un corridoio cruciale per il contrabbando di armi, esseri umani e fauna selvatica, attività che finanziano reti criminali e gruppi terroristici, minando la stabilità degli stati costieri e alimentando la corruzione. La pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata (IUU) costituisce una piaga persistente e devastante. Con perdite stimate in miliardi di dollari annui per nazioni come Kenya, Somalia e Mozambico, la pesca IUU non solo depreda le risorse ittiche e danneggia l'ecosistema marino, ma compromette la sicurezza alimentare, alimenta i conflitti sociali e crea le condizioni socioeconomiche che spingono le popolazioni verso la pirateria e altre attività criminali. Infine, il terrorismo marittimo e i rischi ambientali completano il quadro. Gruppi terroristici, specialmente in Mozambico e lungo le coste del Kenya, utilizzano il dominio marittimo per supporto logistico e reclutamento. Allo stesso tempo, l'aumento del traffico navale, dovuto al re-instradamento delle navi attorno al Capo di Buona Speranza, ha causato un incremento del 20% degli incidenti marittimi, come collisioni e sversamenti, mettendo a dura prova le capacità di risposta e aumentando il rischio di disastri ecologici su larga scala. Per fronteggiare questa complessa matrice di minacce, la comunità internazionale e gli attori regionali hanno sviluppato un'architettura di sicurezza basata sulla cooperazione. Meccanismi come il RMIFC di Madagascar e il Regional Centre for Operational Co-ordination (RCOC) alle Seychelles, supportati da programmi europei come MASE e Safe Seas Africa (SSA), sono fondamentali per la raccolta e la condivisione di informazioni. A essi si affiancano le forze navali multinazionali, come la Combined Maritime Forces (CMF) e le missioni europee Atalanta e Aspides, che conducono operazioni di pattugliamento, deterrenza e contrasto diretto. Conseguenze Geopolitiche L'instabilità dell'Oceano Indiano Occidentale non è solo una questione di sicurezza, ma il riflesso di una profonda competizione geopolitica globale. La regione è diventata una "nuova scacchiera" dove le grandi potenze si contendono influenza, accesso alle risorse e controllo delle rotte strategiche. La Cina, attraverso la sua strategia della "collana di perle", ha stabilito una presenza strategica in porti chiave come Gibuti e Gwadar (Pakistan), per proteggere le proprie linee di approvvigionamento energetico e proiettare la propria potenza navale. In risposta, l'India ha promosso la sua dottrina "SAGAR" (Security and Growth for All in the Region), posizionandosi come principale garante della sicurezza regionale e stringendo alleanze con le nazioni insulari e dell'Africa orientale. A questa rivalità sino-indiana si sovrappone la competizione tra le monarchie del Golfo, con l'asse Emirati Arabi Uniti-Arabia Saudita che contende l'influenza a Qatar e Iran nel Mar Rosso e nel Corno d'Africa. L'elemento più innovativo di questa competizione è la battaglia per i corridoi geostrategici terrestri, che convergono tutti sull'Oceano Indiano. L'India-Middle East-Europe Economic Corridor (IMEC), sostenuto dagli Stati Uniti, è un progetto multimodale che mira a creare un'alternativa alla Belt and Road Initiative (BRI) cinese, collegando l'India all'Europa attraverso il Golfo e Israele. Il successo di IMEC dipende interamente dalla sicurezza e dall'efficienza dei porti dell'OIO. A esso si contrappone l'International North-South Transport Corridor (INSTC), che collega la Russia all'India attraverso l'Iran, offrendo a Mosca una via d'uscita dalle sanzioni e a Teheran uno strumento per rompere l'isolamento. Infine, le vie transafricane della BRI cinese collegano le risorse minerarie dell'interno del continente ai porti dell'Oceano Indiano, garantendo a Pechino l'accesso alle materie prime e creando una forte dipendenza economica e logistica. In questo contesto, l'instabilità regionale e la criminalità marittima diventano fenomeni che possono essere strumentalizzati o che, in ogni caso, influenzano l'equilibrio di potere tra questi blocchi geopolitici concorrenti. Conseguenze Strategiche Le implicazioni strategiche dell'instabilità nell'OIO sono profonde. Per le potenze globali, la necessità di garantire la libertà di navigazione lungo queste arterie vitali si traduce in un imperativo strategico: mantenere una presenza navale costante e robusta. Non si tratta solo di missioni di polizia marittima, ma di una chiara proiezione di potenza volta a proteggere gli interessi economici e a mantenere l'influenza. La militarizzazione della regione, con la presenza permanente di flotte internazionali, è la conseguenza diretta di questa logica. Per gli stati rivieraschi, le minacce marittime rappresentano una sfida diretta alla loro sovranità e stabilità interna. Il traffico di droga e armi finanzia insurrezioni e terrorismo, mentre la pesca IUU erode la legittimità dello Stato, incapace di proteggere le proprie risorse e i propri cittadini. La debolezza istituzionale e la corruzione, a loro volta, creano un ambiente favorevole alla proliferazione della criminalità, in un ciclo vizioso che ostacola lo sviluppo. Un'ulteriore conseguenza strategica è il potenziale riassetto permanente delle rotte commerciali globali. Il re-instradamento delle navi attorno all'Africa, inizialmente una misura emergenziale, potrebbe consolidarsi in una nuova normalità, portando alla nascita di nuovi hub logistici e al declino di altri, come il Canale di Suez, con enormi ripercussioni economiche e strategiche per l'Egitto e per l'intero Mediterraneo. Questa riorganizzazione sta già spingendo le compagnie di navigazione a stringere nuove alleanze e a riconsiderare l'intera catena logistica globale. Conseguenze Marittime Le conseguenze dirette sul dominio marittimo sono state immediate e pesanti. La crisi nel Mar Rosso ha provocato un'impennata dei premi assicurativi per il trasporto navale e un allungamento dei tempi di transito di circa dieci giorni, con una conseguente riduzione della disponibilità di navi e container e un aumento generalizzato dei costi per i consumatori finali. Questa interruzione delle catene di approvvigionamento ha dimostrato la fragilità di un sistema logistico globale fortemente interconnesso. Dal punto di vista tattico, la diversificazione delle minacce impone alle marine militari di sviluppare capacità di risposta flessibili e tecnologicamente avanzate. Devono essere in grado di fronteggiare contemporaneamente attacchi sofisticati con droni e missili balistici nel Mar Rosso e operazioni di pirateria più tradizionali nel Golfo di Aden. Questa dualità mette a dura prova le risorse e richiede un costante aggiornamento delle dottrine operative e degli equipaggiamenti. Un altro effetto diretto è l'aumento dei rischi per la sicurezza della navigazione (safety) e per l'ambiente. L'incremento degli incidenti marittimi, legato all'uso di navi più vecchie su rotte più lunghe e pericolose, aumenta la probabilità di disastri ecologici. La minaccia di uno sversamento di petrolio su larga scala, come quella paventata in seguito all'attacco alla petroliera MV Sounion, rimane un rischio concreto con conseguenze potenzialmente catastrofiche per gli ecosistemi marini. Infine, la sostenibilità della "Blue Economy" africana è gravemente compromessa. La pesca IUU, come già sottolineato, distrugge gli stock ittici, danneggia habitat critici come le barriere coralline e priva le comunità costiere della loro principale fonte di sostentamento. La criminalità marittima, nel suo complesso, impedisce lo sviluppo di settori economici legati al mare, come il turismo e l'acquacoltura, condannando molte regioni a un sottosviluppo cronico e a una dipendenza dagli aiuti esterni. Conseguenze per l'Italia Per l'Italia, nazione a forte vocazione marittima la cui economia dipende per oltre il 90% dal commercio via mare, le dinamiche dell'Oceano Indiano Occidentale non sono eventi remoti, ma questioni di primario interesse nazionale. La visione strategica del "Mediterraneo Allargato" concettualizza questa interdipendenza: la sicurezza delle linee di comunicazione che attraversano il Canale di Suez e lo stretto di Bab el-Mandeb è vitale per l'esportazione dei prodotti del Made in Italy e per l'importazione di materie prime ed energia. Qualsiasi interruzione di questi flussi ha un impatto diretto sull'economia italiana. A ciò si aggiunge l'interesse crescente per le risorse energetiche dell'Africa orientale, come il gas naturale del Mozambico, che rappresentano una potenziale via di diversificazione degli approvvigionamenti. In questo quadro, la presenza della Marina Militare Italiana assume un duplice ruolo. Da un lato, svolge una funzione operativa imprescindibile come fornitore di sicurezza, partecipando in prima linea e spesso con ruoli di comando a missioni europee cruciali come Atalanta e Aspides. Questa presenza garantisce la protezione degli interessi nazionali e contribuisce alla stabilità globale. Dall'altro lato, la Marina agisce come un potente strumento di diplomazia e soft power. Sfruttando un consolidato legame storico con nazioni come Somalia, Etiopia ed Eritrea, l'Italia si propone come un partner collaborativo e non predatorio. Questa visione è oggi incarnata dal "Piano Mattei per l'Africa", che mira a un modello di cooperazione paritaria. La sicurezza marittima diventa così il presupposto indispensabile per il successo di queste iniziative. Il dispiegamento di assetti moderni, come i Pattugliatori Polivalenti d'Altura, e di simboli di prestigio, come la nave scuola Amerigo Vespucci, rafforza il dialogo, la fiducia e la cooperazione con le marine regionali, promuovendo il principio di "soluzioni africane per problemi africani". Conclusioni L'impegno italiano nell'Oceano Indiano Occidentale è, in definitiva, una necessità strategica radicata in una visione geopolitica lungimirante. La regione è un'arteria vitale per l'economia globale, ma anche un'area esposta a minacce complesse e interconnesse che richiedono risposte altrettanto articolate. L'Italia, forte della sua esperienza e della sua credibilità, si pone come un partner proattivo, pronto a offrire un modello di cooperazione olistico che vada oltre la mera dimensione militare. Le sfide future impongono un rafforzamento di questo approccio integrato. È fondamentale continuare a sostenere e potenziare l'architettura di sicurezza regionale, migliorando la condivisione delle informazioni e il coordinamento operativo tra attori locali e internazionali. Parallelamente, è necessario insistere su un modello di partenariato che combini la sicurezza con lo sviluppo. Iniziative come il supporto alla "Blue Economy" africana, attraverso il trasferimento di tecnologia e know-how industriale italiano, possono creare un circolo virtuoso dove la stabilità genera prosperità, e la prosperità finanzia una maggiore e più autonoma capacità di sicurezza. Infine, un'attenzione particolare va dedicata al rafforzamento dello stato di diritto in mare. Senza un solido quadro giuridico e capacità giudiziarie adeguate nei paesi della regione – il cosiddetto "legal finish" – gli sforzi operativi rischiano di essere vanificati. L'Italia può condividere la sua notevole expertise in questo campo, contribuendo a formare magistrati e forze di polizia e a sviluppare leggi efficaci. L'obiettivo ultimo deve essere quello di trasformare l'Oceano Indiano Occidentale da un'area di crisi a uno spazio di sicurezza, stabilità e prosperità condivisa. Questo richiederà un impegno costante e coordinato, fondato sul rispetto reciproco e su una cooperazione paritaria, in cui l'Italia, con la sua Marina Militare, è destinata a giocare un ruolo da protagonista. Riferimenti I contenuti e le analisi presenti in questo saggio sono una sintesi e rielaborazione tratta dai seguenti testi:
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OHi Mag Report Geopolitico nr. 154 Introduzione L'operazione militare israeliana del 13 giugno 2025 contro l'Iran ha segnato un punto di inflessione per la stabilità globale, catalizzando la transizione da un paradigma di conflitto per procura a uno scontro statale diretto con immediate e significative conseguenze geopolitiche e geo-economiche. Questa escalation non è un evento isolato, ma la manifestazione critica di un sistema internazionale in fase di frammentazione. L'analisi che segue mira a decostruire questo evento epocale, esplorandone le conseguenze strategiche, geopolitiche, marittime e le implicazioni per l'Italia. Cronaca di un conflitto mai chiuso Nelle prime ore di venerdì 13 giugno, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno dato avvio a un'operazione militare multi-dominio, battezzata "Rising Lion", contro obiettivi strategici distribuiti sull'intero territorio della Repubblica Islamica dell'Iran. La scelta stessa del nome, come evidenziato da Emanuele Rossi su Formiche, possiede un valore simbolico profondo, evocando il leone della storica bandiera persiana in un chiaro affronto all'identità nazionale e ideologica del regime. L'attacco, articolato in almeno tre ondate aeree, è stato caratterizzato da una complessità e una portata che superano di gran lunga i precedenti scambi di colpi tra i due avversari. Gli obiettivi primari dell'operazione erano duplici: la neutralizzazione delle infrastrutture critiche del programma nucleare iraniano e la decapitazione della leadership militare e scientifica. Dispacci di agenzie internazionali hanno confermato attacchi di precisione contro i siti di arricchimento dell'uranio a Natanz, il reattore ad acqua pesante di Arak e il complesso militare di Parchin, sospettato di ospitare attività di ricerca legate alla militarizzazione del programma atomico. Parallelamente, come sottolineato da Andrea Muratore su InsideOver, i raid hanno colpito la capitale Teheran, con l'intento di eliminare figure apicali del sistema di potere. Fonti dei media di stato iraniani, successivamente riprese a livello globale, hanno confermato l'uccisione del comandante in capo dei Pasdaran, Hossein Salami, del consigliere diplomatico della Guida Suprema, Ali Shamkhani, e di altri alti ufficiali e scienziati nucleari. La complessità tattica dell'operazione, come analizzato da Maya Carlin su National Interest, risiede nella combinazione sinergica di diversi domini bellici. L'offensiva aerea è stata condotta da una flotta composita di caccia di ultima generazione, tra cui F-35I "Adir", F-15I e F-16I, capaci di lanciare munizioni di precisione a lungo raggio (stand-off). Tuttavia, questa proiezione di forza aerea è stata resa possibile da meticolose operazioni di intelligence condotte a terra. Secondo diverse fonti, squadre del Mossad si sarebbero infiltrate in territorio iraniano nei mesi precedenti per pre-posizionare sistemi di disturbo elettronico (jamming) e per lanciare droni kamikaze contro specifici sistemi di difesa aerea e arsenali missilistici, una tattica di "abilitazione" del campo di battaglia che, come notato da Fulvio Scaglione su InsideOver, presenta sorprendenti somiglianze metodologiche con le operazioni di sabotaggio ucraine contro le basi aeree russe. La reazione di Teheran, pur menomata dal colpo subito, non si è fatta attendere. Con l'operazione "Vera Promessa 3", l'Iran ha lanciato uno sciame di oltre cento droni contro il territorio israeliano. Significativamente, i droni non sono partiti solo dall'Iran, ma anche da basi in Siria, Iraq e Yemen, a dimostrazione di una deliberata attivazione dell'intera rete di proxy regionali. Questa mossa ha trasformato istantaneamente un confronto bilaterale in un potenziale conflitto multi-fronte, portando l'intera regione sulla soglia di una guerra su vasta scala. Conseguenze Geopolitiche L'onda d'urto geopolitica generata dall'operazione "Rising Lion" ha accelerato la frammentazione di un ordine internazionale già fragile, evidenziando la crescente inefficacia delle istituzioni multilaterali e la prevalenza di dinamiche di potere unilaterali o basate su coalizioni ad hoc. La convocazione d'urgenza del Consiglio di Sicurezza dell'ONU si è rivelata un esercizio di retorica impotente, incapace di produrre una risoluzione vincolante e confermando la sua marginalizzazione nella gestione delle crisi di sicurezza più acute. La postura degli Stati Uniti, sotto la seconda amministrazione Trump, è emblematica di questo nuovo paradigma. Come analizzato da Grant Rumley e Claudia Groeling per il Washington Institute, la "Dottrina Trump" privilegia accordi transazionali e un uso limitato della forza militare diretta, evitando costosi "endless wars". In questo quadro, Washington ha negato ufficialmente ogni coinvolgimento, ma ha simultaneamente strumentalizzato l'attacco israeliano come leva negoziale per costringere Teheran a cedere sul programma nucleare. Questa ambiguità strategica, tuttavia, presenta costi significativi. Internamente, come riporta Jack Hunter su Responsible Statecraft, ha provocato una dura reazione della base elettorale "MAGA", che vede nel sostegno a una nuova guerra in Medio Oriente un tradimento della promessa di "America First". Esternamente, ha minato la credibilità di Washington come mediatore e ha messo in luce una debolezza percepita rispetto alla capacità di Israele di dettare l'agenda regionale, come sottolineato da Joshua Yaphe su National Interest. La crisi ha inoltre agito da catalizzatore per i riallineamenti regionali. La ferma condanna dell'attacco da parte dell'Arabia Saudita non va letta come un atto di solidarietà verso l'Iran, ma come un calcolo pragmatico dettato dalla necessità di proteggere i propri ambiziosi piani di trasformazione economica (Vision 2030) da un'escalation che destabilizzerebbe l'intero Golfo. Questo indica un superamento delle rigide polarizzazioni del passato a favore di una gestione più fluida e autonoma degli interessi nazionali. L'isolamento dell'Iran, come evidenziato da Fulvio Scaglione su InsideOver, è risultato palese: né la Russia, vincolata da una complessa relazione con Israele e dalle sue priorità in Ucraina, né la Cina, restia a un coinvolgimento diretto che metterebbe a rischio i suoi interessi economici, sono intervenute. Questa solitudine strategica espone la debolezza strutturale del regime di Teheran, la cui rete di alleanze si è dimostrata inefficace di fronte a un'aggressione statale diretta. Conseguenze Strategiche Sul piano della dottrina militare, l'operazione "Rising Lion" segna l'affermazione di un nuovo paradigma di conflitto. L'analisi dell'Istituto Affari Internazionali (IARI) lo definisce "anapoliké" (dal greco, "non ascendente"), descrivendo una forma di guerra ad alta intensità tecnologica che mira a conseguire effetti strategici decisivi senza ricorrere a un'invasione di terra. Questo approccio si basa sull'impiego sinergico di aviazione stealth, munizioni di precisione a lungo raggio e intelligence multi-dominio per distruggere la capacità bellica avversaria, piuttosto che per conquistare territorio. L'obiettivo è trasformare l'azione militare in una "dichiarazione strategica", un atto che condiziona il comportamento del nemico attraverso l'imposizione psicologica ("psycho-logiké epivolí") e non tramite l'annientamento fisico totale. Questo modello minimizza i costi umani e politici per l'attaccante e, teoricamente, mantiene aperti i canali diplomatici, rappresentando una forma di conflitto postmoderno, ideale per un'era di competizione tra potenze che rifuggono la guerra totale. Per Israele, l'attacco è stato uno "sfolgorante successo militare", come scrive Riccardo Alcaro su Affari Internazionali, che ha ripristinato la propria deterrenza e inferto un colpo durissimo alle capacità operative iraniane. Tuttavia, il successo tattico potrebbe nascondere un fallimento strategico a lungo termine. Come avverte Richard Nephew su Foreign Affairs, è improbabile che un'operazione militare, per quanto vasta, possa eradicare completamente un programma nucleare così diffuso, ridondante e fortificato come quello iraniano. Al contrario, l'aggressione potrebbe fornire a Teheran la legittimazione e la spinta finale per abbandonare il Trattato di Non-Proliferazione (TNP) e perseguire apertamente lo sviluppo di un deterrente nucleare come ultima garanzia di sicurezza nazionale. Si verificherebbe così un paradosso della contro-proliferazione, in cui l'azione militare intesa a prevenire la bomba finisce per renderla inevitabile. Infine, l'analisi di Gianandrea Gaiani su Analisi Difesa offre una prospettiva più cinica, inquadrando l'attacco all'interno della teoria della "guerra diversiva". Secondo questa tesi, il premier Netanyahu, messo alle strette da difficoltà politiche interne, avrebbe cercato di allargare il conflitto per coinvolgere gli Stati Uniti, deviando l'attenzione e consolidando il proprio potere. Questa interpretazione suggerisce che le motivazioni strategiche potrebbero essere subordinate a calcoli di sopravvivenza politica, una dinamica che rende l'escalation ancora più pericolosa e imprevedibile. Conseguenze Marittime L'impatto dell'escalation militare si è immediatamente trasmesso dalle alture dell'altopiano iranico alle rotte marittime globali, evidenziando la fragilità del sistema commerciale internazionale. Come documentato da Alexander Whiteman su gCaptain e The Loadstar, la crisi ha introdotto una "nuova minaccia" per la navigazione commerciale, provocando un'immediata impennata dei costi assicurativi (i "war risk premiums") e delle tariffe di nolo. L'epicentro di questa tensione è lo Stretto di Hormuz, il choke point marittimo più critico del pianeta, attraverso cui transita circa un terzo del petrolio trasportato via mare e una porzione significativa del commercio di Gas Naturale Liquefatto (GNL). Sebbene una chiusura totale dello stretto sia ritenuta improbabile persino da esperti come Lars Jensen di Vespucci Maritime, il concetto di "minaccia credibile" è sufficiente a stravolgere i flussi commerciali. Come dimostrato dalla crisi nel Mar Rosso, bastano pochi attacchi riusciti per indurre le principali compagnie di navigazione, avverse al rischio, a deviare le proprie rotte, con conseguenti aumenti dei costi e dei tempi di transito. Una chiusura anche parziale di Hormuz, come analizzato da Peter Sand di Xeneta, avrebbe un impatto devastante, tagliando fuori i vitali hub di trasbordo di Dubai e Abu Dhabi e costringendo i vettori a riorganizzare le catene di approvvigionamento, con una maggiore dipendenza dai porti dell'India occidentale. La minaccia non è solo teorica. Il sequestro della nave portacontainer MSC Aries da parte delle forze iraniane nell'aprile 2024 costituisce un precedente inquietante, dimostrando la capacità di Teheran di condurre operazioni di interdizione selettiva contro il naviglio legato a interessi nemici. Con la percezione di un coinvolgimento americano nell'attacco del 13 giugno, il rischio di rappresaglie iraniane si estende potenzialmente a una gamma molto più ampia di navi commerciali. La simultanea instabilità in più punti di snodo marittimi (Hormuz, Mar Rosso/Suez, Mar Nero) crea una pressione sistemica senza precedenti sulle catene del valore globali, accelerando le tendenze verso il near-shoring e la ricerca di rotte alternative, come quelle artiche, che a loro volta presentano nuove sfide geopolitiche. Conseguenze per l'Italia Per un'economia di trasformazione come quella italiana, la cui competitività è intrinsecamente legata alla stabilità dei prezzi energetici e alla fluidità delle rotte marittime, le conseguenze della crisi mediorientale sono dirette, acute e multiformi. La dipendenza strutturale dall'importazione di idrocarburi rende il sistema produttivo italiano estremamente vulnerabile agli shock dei prezzi energetici. L'aumento dell'11% del costo del greggio, registrato nelle ore immediatamente successive all'attacco, si traduce direttamente in un aumento dei costi di produzione per l'industria manifatturiera e in una pressione inflazionistica sui consumi delle famiglie, minando la ripresa economica e la stabilità sociale. La vulnerabilità italiana è accentuata dalla sua geografia. Posizionata al centro del Mediterraneo, l'Italia è esposta in prima linea a tutte le dinamiche di instabilità provenienti dal "Mediterraneo Allargato", un'area che si estende dal Nord Africa al Golfo Persico. La sicurezza delle Linee di Comunicazione Marittima (SLOCs) che attraversano il Canale di Suez e lo Stretto di Hormuz è un interesse nazionale primario. Qualsiasi interruzione di queste rotte avrebbe un impatto paralizzante sui porti italiani e sull'intero sistema logistico nazionale. Questa esposizione strutturale impone all'Italia una risposta strategica proattiva. Sul piano diplomatico, il governo si è mosso rapidamente per promuovere, in coordinamento con i partner europei, iniziative di de-escalation. Questa postura non risponde solo a un imperativo morale, ma a un calcolo strategico volto a proteggere gli interessi nazionali. A lungo termine, la crisi rafforza la necessità per l'Italia di accelerare la diversificazione delle fonti energetiche e di investire in nuove infrastrutture e rotte strategiche. Conclusioni L'analisi degli eventi del 13 giugno 2025 conferma una transizione di fase del sistema internazionale verso un paradigma di elevata volatilità e rischio sistemico. L'attacco israeliano all'Iran ha agito da shock esogeno, destabilizzando simultaneamente tre sottosistemi interconnessi: il complesso di sicurezza regionale mediorientale, l'architettura geo-economica globale e l'equilibrio della competizione tra grandi potenze. L'ordine globale è entrato in una fase di instabilità strutturale, caratterizzata da una maggiore tolleranza al rischio da parte degli attori, dall'inefficacia dei meccanismi multilaterali e dalla stretta interdipendenza tra sicurezza regionale e stabilità sistemica. L'evoluzione di questa crisi dipenderà dall'interazione di tre variabili critiche. A livello regionale, il calcolo strategico di Teheran costituisce la variabile immediata. Una ritorsione militare massiccia potrebbe innescare una spirale di escalation incontrollata, mentre una risposta contenuta rischia di erodere la deterrenza del regime. Sul piano geo-economico, la sicurezza delle linee di comunicazione marittima, in particolare nello Stretto di Hormuz, funge da indicatore primario della tensione. A livello sistemico, la gestione della rivalità sino-americana rimane il determinante strutturale a lungo termine. La precarietà del loro equilibrio competitivo indica che la stabilità globale dipenderà dalla capacità di governare questa dinamica, che è il vero motore del nuovo disordine globale. È imperativo che la comunità internazionale, e in particolare gli attori con un interesse diretto alla stabilità come l'Europa, intensifichino gli sforzi diplomatici per contenere la crisi, promuovere canali di dialogo e prevenire un'ulteriore, catastrofica, escalation. Riferimento:
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OHi Mag Report Geopolitico nr. 153 Introduzione L'analisi di John D. McCown, pubblicata l'11 giugno 2025 dal Center for Maritime Strategy, offre una critica incisiva della politica di sicurezza nazionale statunitense, evidenziando un paradosso strategico tanto profondo quanto pericoloso. L'articolo mette a nudo come l'amministrazione americana abbia invocato poteri di emergenza economica internazionale per affrontare una minaccia considerata fittizia – il deficit commerciale – attraverso l'imposizione di dazi che alienano gli alleati e minano l'ordine liberale. Contemporaneamente, la stessa amministrazione ignora una vulnerabilità reale e crescente che rischia di paralizzare la capacità di proiezione militare della nazione: il drastico declino della flotta mercantile battente bandiera americana. Questo saggio, partendo dalla disamina di McCown, intende sintetizzarne i fatti salienti per poi esplorarne le profonde conseguenze geopolitiche, strategiche e marittime, con un'attenzione specifica alle implicazioni per un attore come l'Italia, prima di formulare conclusioni e raccomandazioni di più ampio respiro. I Fatti L'argomentazione di John D. McCown si fonda su una premessa inconfutabile: il commercio marittimo non è solo un motore economico, ma un pilastro della pace e della sicurezza globale. Con quasi la metà dei beni tangibili mondiali trasportata via mare, l'efficienza della flotta mercantile globale ha ridotto le distanze, sollevato centinaia di milioni di persone dalla povertà e, storicamente, mitigato le tensioni internazionali. In questo contesto, l'autore analizza l'uso da parte dell'amministrazione Trump dell'International Emergency Economic Powers Act (IEEPA), una legge del 1977 concepita per affrontare minacce specifiche e straordinarie provenienti dall'esterno. McCown dimostra come la dichiarazione di un'emergenza nazionale basata sul deficit commerciale del 2024 – pari al 3,15% del PIL, un valore non emergenziale e inferiore a quello degli anni precedenti – rappresenti un'interpretazione illegittima della legge, come confermato da una sentenza unanime della Corte del Commercio Internazionale. L'autore evoca un precedente storico allarmante: l'embargo petrolifero imposto dagli Stati Uniti al Giappone nel 1941, una politica commerciale che fu un catalizzatore diretto dell'attacco a Pearl Harbor, dimostrando come misure economiche punitive possano innescare conflitti militari. Contrapposto a questa emergenza "fittizia", McCown identifica il vero e attuale pericolo per la sicurezza nazionale americana: la drammatica atrofia della sua capacità di trasporto marittimo strategico (sealift). A fronte di una flotta mercantile mondiale di oltre 17.500 navi, solo 95 battenti bandiera statunitense operano nel commercio internazionale. Questo dato, pari allo 0,54% del totale, impallidisce di fronte alle 2.353 navi cinesi, che rappresentano oltre il 13% della flotta globale. Questa disparità non è solo numerica, ma strategica: la Cina esercita un'influenza enorme sulla logistica mondiale, con metà della flotta mercantile globale impegnata a servire le sue rotte commerciali. In uno scenario di crisi, come un'invasione di Taiwan, la capacità di Pechino di esercitare pressioni sulle navi battenti bandiera estera per negare supporto agli Stati Uniti è un fattore critico. La conclusione di McCown è netta: l'uso corretto dell'IEEPA sarebbe dichiarare il crollo della flotta mercantile americana una vera emergenza nazionale e implementare una soluzione immediata, come l'espansione del Maritime Security Program (MSP) per aggiungere almeno 100 navi a duplice uso alla flotta, garantendo così una capacità di sealift affidabile in caso di conflitto. Conseguenze Geopolitiche La diagnosi di McCown rivela conseguenze geopolitiche profonde che trascendono la mera contabilità navale. L'abuso dell'IEEPA per imporre dazi indiscriminati, anche contro alleati storici come l'Unione Europea, il Regno Unito e il Giappone, proietta l'immagine di un'America inaffidabile e transazionale, disposta a sacrificare la coesione delle alleanze sull'altare di un nazionalismo economico mal concepito. Questa politica non solo genera ritorsioni commerciali, ma erode il capitale di fiducia che è alla base del sistema di alleanze occidentale, un sistema fondamentale per controbilanciare l'influenza di potenze revisioniste. Di fatto, mentre si combatte una guerra commerciale contro i propri amici, si ignora la preparazione del terreno per un potenziale conflitto militare in cui quegli stessi amici sarebbero indispensabili. La debolezza strutturale nella capacità di sealift, la vera emergenza, indebolisce la credibilità della deterrenza americana. Se avversari e alleati percepiscono che gli Stati Uniti non hanno la capacità logistica per sostenere un conflitto prolungato lontano dai propri confini, il valore delle garanzie di sicurezza e dei trattati difensivi diminuisce drasticamente. Si crea così un pericoloso vuoto di potere, specialmente nell'Indopacifico, che la Cina è pronta a riempire non solo con la sua potenza navale, ma anche con la sua schiacciante influenza sul commercio marittimo globale. Conseguenze Strategiche Sul piano strategico-militare, le implicazioni delineate da McCown sono allarmanti. La dottrina militare americana si basa sulla capacità di proiettare potenza (power projection) su scala globale. Tuttavia, senza un'adeguata capacità di sealift, questa dottrina diventa un guscio vuoto. Un budget per la difesa di 850 miliardi di dollari serve a poco se le brigate corazzate, le munizioni e i rifornimenti non possono raggiungere il teatro operativo in modo tempestivo e sicuro. L'autore definisce questa vulnerabilità un "tallone d'Achille", un punto debole critico che potrebbe determinare l'esito di un futuro conflitto. In uno scenario di invasione di Taiwan, la mancanza di una flotta mercantile nazionale affidabile costringerebbe gli Stati Uniti a fare affidamento su navi battenti bandiera straniera, che potrebbero essere ritirate dai loro proprietari per ragioni commerciali o sotto coercizione politica da parte di Pechino. Questo ritarderebbe e forse comprometterebbe fatalmente la risposta militare americana, alterando il calcolo strategico della Cina e rendendo un'azione militare contro Taiwan più plausibile. La strategia cinese, al contrario, appare olistica: la sua massiccia flotta mercantile non è solo uno strumento economico, ma una riserva strategica a duplice uso, perfettamente integrata in una visione di fusione civile-militare. La focalizzazione americana sui dazi, quindi, non è solo una politica economicamente dannosa, ma una distrazione strategica che distoglie risorse e attenzione politica dal colmare un divario di capacità che diventa ogni giorno più critico. Conseguenze Marittime Il dominio marittimo è l'arena in cui queste conseguenze si manifestano più concretamente. Il declino della flotta mercantile battente bandiera americana non è solo una questione numerica, ma rappresenta la perdita di un'intera base industriale e umana: cantieri navali, competenze ingegneristiche e, soprattutto, un numero sufficiente di marinai americani qualificati per equipaggiare le navi in tempo di crisi. Questa erosione di capitale umano e industriale è difficile e costosa da invertire. La proposta di McCown di espandere il Maritime Security Program mira precisamente a questo: non solo ad aumentare il numero di navi, ma a mantenere in vita un ecosistema di competenze marittime vitali per la sicurezza nazionale. La dominanza cinese nel settore va oltre il possesso delle navi. Si estende al controllo di terminal portuali strategici in tutto il mondo, al dominio nella costruzione navale e a un'influenza decisiva sui registri delle "bandiere di comodo" (Panama, Liberia, Isole Marshall), che da sole rappresentano oltre il 40% della flotta mondiale. In una crisi, Pechino potrebbe sfruttare questa leva per paralizzare la logistica del suo avversario senza sparare un colpo. Infine, i dazi stessi hanno un impatto destabilizzante sul settore marittimo, creando incertezza, alterando le rotte commerciali e aumentando i costi operativi per le compagnie di navigazione, che prosperano sulla prevedibilità e sulla stabilità. Conseguenze per l’Italia Per una nazione come l'Italia, la cui economia e sicurezza sono intrinsecamente legate al mare e all'ordine internazionale liberale, le analisi di McCown sono un campanello d'allarme. In primo luogo, una politica estera americana imprevedibile e protezionista che indebolisce il legame transatlantico è una minaccia diretta alla sicurezza italiana. La NATO, pilastro della difesa nazionale, si fonda sulla credibilità e la coesione, elementi erosi da guerre commerciali tra alleati. In secondo luogo, l'Italia, come penisola nel cuore del Mediterraneo e piattaforma logistica naturale, soffre direttamente l'instabilità del commercio marittimo globale. I dazi e le contromisure alterano i flussi commerciali che alimentano i porti italiani e sostengono le esportazioni del "Made in Italy". La prospettiva di un'interruzione delle rotte a causa di un conflitto nell'Indopacifico o nel Golfo Persico avrebbe conseguenze economiche catastrofiche. In terzo luogo, la debolezza della capacità di sealift americana mette in discussione la rapidità e l'efficacia di un eventuale intervento statunitense in crisi che potrebbero minacciare direttamente gli interessi italiani, ad esempio nel Mediterraneo Allargato o in Nord Africa. Infine, la proposta di McCown di rivitalizzare la base industriale marittima americana potrebbe rappresentare sia una sfida che un'opportunità per l'industria cantieristica italiana (ad esempio Fincantieri), che potrebbe essere coinvolta in programmi di cooperazione, ma che si troverebbe anche a competere in un contesto di crescente nazionalismo industriale. Conclusioni L'analisi di John D. McCown, datata 11 giugno 2025, espone con chiarezza una fondamentale e pericolosa dissonanza nella grande strategia degli Stati Uniti. Evidenzia come l'ossessione per politiche commerciali protezionistiche, mascherate da emergenze nazionali, non solo mini le fondamenta del sistema di alleanze occidentale, ma distolga l'attenzione da una vulnerabilità strategica critica: l'incapacità di sostenere logisticamente la propria potenza militare su scala globale. La tregua commerciale con la Cina, gli scontri interni a Los Angeles e la crescente tensione nel Golfo Persico non sono eventi isolati, ma sintomi di un ordine globale in cui la razionalità economica è sopraffatta da dinamiche di potere e da una profonda instabilità. La vera emergenza non è il deficit, ma il divario di capacità marittima che invita all'aggressione. La raccomandazione che ne consegue trascende i confini americani. Per potenze alleate come l'Italia e per l'Occidente nel suo complesso, la lezione è chiara: la sicurezza economica e quella militare sono inestricabilmente legate e non possono essere perseguite l'una a scapito dell'altra. È necessaria una ri-prioritizzazione strategica, abbandonando le sterili guerre commerciali per concentrarsi su un rafforzamento collettivo e coordinato delle basi industriali, tecnologiche e logistiche. Assicurare una capacità di trasporto marittimo resiliente e affidabile non è una spesa, ma un investimento fondamentale per la credibilità della deterrenza e la preservazione della pace. Riferimento: McCown, John D., "Trade & U.S. National Security: What Constitutes an International Economic Emergency", Center for Maritime Strategy, 11 giugno 2025, https://centerformaritimestrategy.org/publications/trade-u-s-national-security-what-constitutes-an-international-economic-emergency/ © RIPRODUZIONE RISERVATA
OHi Mag Report Geopolitico nr. 152 Introduzione Nel giugno del 2025, Los Angeles è diventata l'epicentro di una crisi che ha scosso le fondamenta istituzionali degli Stati Uniti, proiettando nel mondo l'immagine di una superpotenza lacerata e pericolosamente instabile. Quella che è iniziata come una controversa operazione federale contro l'immigrazione irregolare si è rapidamente trasformata in una rivolta urbana, per poi degenerare in uno scontro costituzionale senza precedenti tra il potere esecutivo dell'amministrazione Trump e le autorità dello Stato della California. Tuttavia, questi eventi non sono stati un semplice incidente di percorso. Come evidenziato da analisi giornalistiche e strategiche, si è trattato della manifestazione culminante di una strategia politica deliberata, di una "crisi annunciata" e scientemente cercata dall'amministrazione in carica. Il presente saggio si propone di andare oltre la cronaca dei fatti per decodificare questa calcolata "strategia della tensione", esplorandone le profonde conseguenze a catena che hanno riverberato su scala globale, minando la credibilità dell'alleato americano, svelando un pericoloso precedente autoritario e mettendo a rischio gli equilibri mondiali. La cronaca dei fatti La crisi ha avuto origine da una direttiva dell'amministrazione Trump, concepita per intensificare drasticamente la repressione dell'immigrazione irregolare attraverso una politica di deportazioni accelerate, eseguite senza le garanzie di un processo. Le fonti descrivono l'avvio di massicce operazioni da parte dell'agenzia federale ICE (Immigration and Customs Enforcement) nei quartieri a forte densità ispanica di Los Angeles, come Boyle Heights e Pico-Union. I metodi, descritti come brutali e indiscriminati, includevano irruzioni notturne e retate che non hanno risparmiato nessuno, dai lavoratori giornalieri ai dipendenti di aziende tessili. La scintilla che ha innescato la protesta di massa è stata l'arresto, ampiamente documentato e diffuso sui social media, di David Huerta, presidente del potente sindacato SEIU California. La sua immagine è diventata un simbolo immediato della repressione federale, mobilitando non solo le comunità di immigrati, ma l'intero movimento progressista della California. Le manifestazioni, inizialmente pacifiche, sono rapidamente degenerate. Migliaia di persone hanno bloccato autostrade cruciali come la 101 Freeway e si sono scontrati con la polizia, dando alle fiamme veicoli, tra cui alcune auto a guida autonoma della Waymo, trasformate in barricate fiammeggianti, un'immagine potentemente simbolica della collisione tra futuro tecnologico e frattura sociale. La situazione è precipitata quando il Presidente Trump ha preso una decisione di una gravità costituzionale eccezionale. Bypassando completamente l'autorità del governatore democratico Gavin Newsom e della sindaca di Los Angeles Karen Bass, ha attivato e federalizzato 2.000 membri della Guardia Nazionale dello Stato, ponendoli sotto il diretto controllo federale. Si è trattato di un atto che non si vedeva dal 1965, concepito per imporre "legge e ordine" contro la volontà esplicita delle autorità locali. Non contento, di fronte al persistere dei disordini, il Pentagono ha annunciato lo schieramento di 700 Marines di stanza nella vicina Camp Pendleton. Questa mossa ha trasformato uno scontro civile in un'operazione quasi militare, con elicotteri che sorvolavano il centro di Los Angeles e l'imposizione di un coprifuoco notturno. La risposta del governatore Newsom è stata ferma: ha definito la mossa di Trump una "fantasia squilibrata" e ha annunciato un'immediata azione legale contro l'amministrazione per aver calpestato la sovranità dello Stato. La crisi di Los Angeles, da protesta locale, era ormai diventata una battaglia istituzionale aperta, una frattura profonda all'interno dell'Unione. Le conseguenze geopolitiche Le ripercussioni geopolitiche degli eventi di Los Angeles sono state immediate e profonde, proiettando all'esterno l'immagine di una superpotenza lacerata e sull'orlo di una crisi costituzionale. L'atto più grave, dal punto di vista istituzionale, è stato l'assalto frontale al principio del federalismo, uno dei pilastri dell'equilibrio di potere statunitense. La decisione di Trump di federalizzare la Guardia Nazionale di uno Stato senza il consenso, e anzi contro la volontà esplicita, del suo governatore ha rappresentato una rottura del patto fiduciario tra governo centrale e autorità locali. Per gli alleati internazionali, abituati a vedere negli Stati Uniti un modello di stabilità democratica basato su un solido sistema di pesi e contrappesi, lo spettacolo di un presidente che schiera l'esercito contro i propri cittadini e le autorità elette ha minato radicalmente la fiducia. Un'America così politicamente instabile e consumata da una faida interna appare come un partner inaffidabile, la cui leadership globale subisce un colpo durissimo. Potenze rivali, in primis Cina e Russia, non hanno perso l'occasione di sfruttare la crisi a proprio vantaggio propagandistico. I media statali di Pechino e Mosca hanno dipinto gli scontri di Los Angeles come la prova definitiva della decadenza e dell'intrinseca fragilità dei sistemi democratici occidentali, contrapponendoli alla presunta stabilità dei loro regimi autoritari. La crisi, quindi, ha offerto loro un'arma potente per delegittimare il modello americano e rafforzare la propria influenza in aree del mondo dove la competizione geopolitica è più accesa. Il "soft power" americano, ovvero la capacità di attrarre e persuadere attraverso la cultura e i valori democratici, ne è uscito gravemente danneggiato, lasciando il posto all'immagine di un "hard power" usato non contro nemici esterni, ma contro la propria stessa popolazione. Questo crea un pericoloso vuoto di potere globale: con un'America distratta e indebolita, aumenta il rischio che attori ostili si sentano incoraggiati a compiere azioni aggressive, certi di una minore capacità di risposta da parte di Washington. Le conseguenze strategiche Lungi dall'essere una reazione spontanea a eventi imprevisti, la gestione della crisi di Los Angeles risponde a una precisa e calcolata "strategia della tensione". Come sottolineato da diversi analisti, gli eventi sono stati, se non interamente orchestrati, quantomeno deliberatamente esasperati dall'amministrazione Trump per raggiungere chiari obiettivi politici e strategici interni. Il primo obiettivo era militarizzare il dibattito pubblico su temi, come l'immigrazione, che risuonano profondamente con la base elettorale repubblicana. Colpendo la California – simbolo dell'opposizione democratica – Trump ha potuto costruire una narrazione efficace per il resto del paese: quella di un'élite liberale debole, incapace di mantenere "legge e ordine". La scelta di scavalcare il governatore Newsom è stata un atto strategico mirato a dipingerlo come impotente e a consolidare l'immagine di Trump come "uomo forte", l'unico in grado di riportare la calma. Lo scenario più inquietante è che questa strategia possa rappresentare un "test case", una prova generale per tattiche future. Fomentare disordini e tensioni negli stati a guida democratica, specialmente in prossimità di scadenze elettorali cruciali, potrebbe fornire il pretesto per dichiarare lo stato di emergenza, contestare la regolarità del voto o addirittura tentare di sospendere le elezioni in nome della sicurezza nazionale. Normalizzare l'uso delle forze armate per la gestione della politica interna, aggirando di fatto lo spirito del posse comitatus senza invocare formalmente l'Insurrection Act, rappresenta un precedente estremamente pericoloso. Si tratta di uno slittamento verso pratiche autoritarie nemmeno più dissimulato, che sposta il confronto politico dal piano del dibattito a quello dello scontro militare e segna un punto di non ritorno nella polarizzazione della società americana. Questo precedente erode le fondamenta della democrazia e mina la fiducia nel principio che le forze armate debbano rimanere neutrali e al di fuori della contesa politica partigiana. Le conseguenze marittime La crisi di Los Angeles, sebbene confinata geograficamente, ha generato onde d'urto che hanno attraversato l'intero pianeta, con implicazioni marittime, economiche e di sicurezza. Il complesso portuale di Los Angeles e Long Beach è il più grande degli Stati Uniti e uno dei nodi commerciali più critici del mondo, un punto di transito fondamentale per le catene di approvvigionamento che collegano l'Asia con le Americhe e l'Europa. Una città paralizzata da disordini su larga scala, con autostrade bloccate e una massiccia presenza militare, ha significato l'interruzione di fatto delle operazioni portuali e logistiche. Le conseguenze sul commercio marittimo globale sono state immediate e devastanti: navi portacontainer bloccate in rada, ritardi a cascata nelle spedizioni in tutto il Pacifico, congestione delle rotte alternative e un aumento vertiginoso dei costi di trasporto e assicurativi. L'interruzione di queste supply chain ha colpito settori vitali dell'economia globale, dall'elettronica all'automotive, dall'abbigliamento ai beni di consumo, generando penuria di componenti e prodotti finiti. Sul piano della sicurezza globale, una crisi interna così importante ha inevitabilmente assorbito l'attenzione e le risorse del Pentagono. La necessità di tenere truppe d'élite come i Marines in stato di allerta per un potenziale impiego sul suolo nazionale ha distolto uomini, mezzi e focus strategico dai teatri operativi internazionali. Una minore presenza o prontezza navale americana in aree critiche come il Mar Cinese Meridionale, lo Stretto di Taiwan o il Golfo Persico avrebbe potuto creare pericolosi vuoti di potere, incoraggiando attori regionali ostili a testare i limiti della determinazione americana. La crisi ha dunque dimostrato la fragilità sistemica delle catene logistiche globali e come un evento politico localizzato possa avere ripercussioni dirette sulla sicurezza e l'economia di nazioni a migliaia di chilometri di distanza, evidenziando la stretta interconnessione tra stabilità interna di una superpotenza e ordine marittimo mondiale. Le conseguenze per l'Italia Per l'Europa e per un'economia fortemente orientata all'export come quella italiana, l'impatto della crisi di Los Angeles è stato duplice e profondo. Sul piano economico, il contraccolpo è stato diretto. Da un lato, l'interruzione delle catene logistiche globali causata dalla paralisi dei porti californiani ha danneggiato le imprese italiane che dipendono dal flusso di merci transatlantico e transpacifico, ritardando forniture e consegne e aumentando i costi operativi. Dall'altro, un'America sempre più protezionista, isolazionista e imprevedibile, guidata da un'amministrazione incline a usare leve economiche come armi politiche, ha rappresentato una minaccia costante per il commercio e gli investimenti, minando la fiducia degli operatori economici. Strategicamente, la crisi ha messo a nudo la dipendenza europea dalla garanzia di sicurezza di un alleato sempre più ripiegato su se stesso e politicamente instabile. L'immagine di un presidente americano che schiera l'esercito contro i propri cittadini solleva un interrogativo inquietante a Bruxelles, Roma e nelle altre capitali europee: possiamo ancora contare su Washington per la difesa dei nostri interessi e della nostra sicurezza? Questo interrogativo ha accelerato per l'Unione Europea l'urgenza, non più procrastinabile, di sviluppare una vera autonomia strategica. A livello politico, infine, il modello trumpiano di gestione della crisi – basato sulla polarizzazione estrema e sullo scontro frontale con le istituzioni democratiche – potrebbe fungere da pericoloso esempio per le forze nazionaliste e populiste in Europa. La "strategia della tensione" americana potrebbe essere importata come un manuale per erodere le fondamenta dello stato di diritto anche nel nostro continente, dimostrando che la crisi di Los Angeles del 2025 non è stata solo una questione americana, ma un avvertimento per tutte le democrazie liberali. Conclusioni In conclusione, l'analisi degli eventi di Los Angeles del giugno 2025, basata sulla convergenza di diverse fonti giornalistiche e di analisi politica, dipinge un quadro allarmante che va ben oltre la cronaca di una rivolta urbana. Emerge il ritratto di una democrazia messa sotto scacco da una deliberata e calcolata strategia politica, mirata a esasperare le divisioni sociali per consolidare un potere di stampo autoritario. La crisi non è stata un incidente di percorso, ma il risultato di un progetto che sfrutta le paure legate all'immigrazione e all'ordine pubblico per scardinare i meccanismi di controllo istituzionale e normalizzare l'uso della forza militare nella politica interna. Le conseguenze di tale strategia si sono propagate all'intero sistema globale, minacciando la stabilità geopolitica, le rotte commerciali e gli equilibri delle alleanze storiche. Da questa analisi scaturisce una raccomandazione cruciale per l'Italia e per l'Unione Europea: l'imperativo di accelerare il percorso verso una reale e robusta autonomia strategica, economica e politica. La crisi americana funge da severo monito sulla precarietà di un ordine mondiale che dipende da un unico garante, specialmente quando quest'ultimo appare sempre più instabile e imprevedibile. È fondamentale, quindi, rafforzare le istituzioni democratiche interne ed europee, rendendole più resilienti ai tentativi di polarizzazione e alle derive populiste. La lezione di Los Angeles è chiara: la difesa dello stato di diritto, dei principi di convivenza civile e degli equilibri costituzionali non è mai un dato acquisito, ma richiede una vigilanza costante e un impegno attivo, sia in patria che nello scenario internazionale. Riferimenti
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OHi Mag Report Geopolitico nr. 151 Introduzione Nel cuore della potenza navale americana, negli ultimi dieci anni, si è consumata una rivoluzione tanto silenziosa quanto profonda. La sua genesi non risiede in nuove, avveniristiche piattaforme navali, ma in un cambiamento culturale e intellettuale volto a riaffermare il primato tattico della flotta di superficie. Questo saggio, traendo spunto da una ricca raccolta di articoli e interviste pubblicata dal Center for International Maritime Security (CIMSEC) in occasione del decimo anniversario della sua fondazione, analizza la nascita, lo sviluppo e l'impatto del Naval Surface and Mine Warfighting Development Center (SMWDC). Istituito nel 2015, lo SMWDC è emerso come l'architetto di una rinascita, un catalizzatore che ha trasformato un approccio burocratico alla prontezza operativa in una cultura ossessionata dall'eccellenza bellica, riassunta nel motto "Warfighting First". Partendo dalla cronaca dei fatti descritti nelle fonti, questa analisi si propone di esplorare le conseguenze a cascata di questa riforma. Verranno esaminate le implicazioni geopolitiche, strategiche e marittime di avere una marina di superficie più letale e competente, per poi focalizzarsi sulle ripercussioni specifiche per un alleato chiave come l'Italia. L'obiettivo è dipingere un quadro esaustivo di come l'investimento strategico nel capitale umano e nella dottrina possa ridefinire gli equilibri globali. I Fatti Per comprendere l'importanza dello SMWDC, è necessario partire dal contesto che ne ha reso necessaria la creazione. Come emerge dalle analisi, in particolare dal richiamo di un articolo del 1993, la marina di superficie statunitense (Surface Navy), dopo la fine della Guerra Fredda, aveva progressivamente perso la sua acutezza tattica. L'assenza di un avversario paritetico in mare aperto aveva spostato il focus sulla proiezione di potenza verso terra e su missioni di sicurezza a più bassa intensità. Il ciclo di addestramento era diventato un esercizio amministrativo, una serie di "caselle da spuntare" per ottenere una certificazione, piuttosto che un percorso deliberato verso la maestria nel combattimento navale di alto livello. La riemersione della competizione tra grandi potenze, con la Cina e la Russia che sviluppavano capacità in grado di contestare il controllo del mare alla US Navy, ha reso questa atrofia tattica un rischio strategico inaccettabile. La risposta, ispirata al successo decennale della scuola per piloti da caccia TOPGUN, fu la creazione dello SMWDC nel 2015. Il cuore pulsante di questa riforma è il programma Warfare Tactics Instructor (WTI). I WTI sono ufficiali di superficie, tipicamente giovani e brillanti, selezionati per diventare i massimi esperti di tattica in specifiche aree di combattimento: difesa aerea e missilistica integrata (IAMD), guerra anti-sottomarina e di superficie (ASW/SUW), guerra anfibia (AMW) e, più tardi, guerra di mine (MIW). Essi incarnano l'ethos di "Guerrieri, Pensatori, Insegnanti". Dopo un intenso corso di formazione, questi ufficiali svolgono un "production tour" durante il quale mettono a frutto la loro esperienza per elevare il livello dell'intera flotta. Il loro impatto si manifesta attraverso le quattro linee operative principali dello SMWDC: addestramento tattico avanzato; sviluppo di dottrina e TTP (Tattiche, Tecniche e Procedure); supporto operativo diretto ai comandanti; e valutazione delle capacità e dei requisiti futuri. Lo strumento principale per l'addestramento avanzato è il Surface Warfare Advanced Tactical Training (SWATT). Si tratta di esercitazioni complesse che, come sottolineato da diversi comandanti intervistati, non sono eventi di certificazione. Al contrario, sono ambienti di apprendimento protetti, dove gli equipaggi sono incoraggiati a sperimentare, commettere errori e imparare da essi senza il timore di un fallimento formale. Il metodo cardine è il ciclo PBED (Plan, Brief, Execute, Debrief). Ogni evento è meticolosamente pianificato, presentato all'equipaggio, eseguito e, soprattutto, analizzato in un debriefing dettagliato. Grazie a sofisticati strumenti di replay che mostrano la "verità oggettiva" di ciò che è accaduto, si eliminano le ambiguità e si promuove un'autovalutazione onesta e critica. Questa cultura dell'umiltà e dell'apprendimento continuo è forse il cambiamento più radicale introdotto dallo SMWDC. Nel corso dei suoi primi dieci anni, il centro si è evoluto. Le scuole per WTI, inizialmente sparse, sono state consolidate nella Surface Advanced Warfighting School (SAWS) a San Diego, per standardizzare e migliorare la formazione, favorendo la collaborazione tra le diverse discipline. L'analisi dei dati raccolti durante le esercitazioni, attraverso il Data Analytics Working Group (DAWG), ha creato un ciclo virtuoso di feedback: le performance operative informano lo sviluppo di nuove TTP, che vengono poi validate in esercitazioni successive e insegnate ai nuovi WTI. Questo processo ha ridotto drasticamente i tempi di adattamento della flotta. Un esempio lampante, citato da RDML Wilson Marks, è la capacità di processare le lezioni apprese in combattimento reale nel Mar Rosso e di trasformarle in raccomandazioni tattiche e scenari addestrativi in poche settimane, non anni. Infine, con la creazione del Surface Requirements Group (SURFRG), i WTI sono ora profondamente coinvolti nel definire i requisiti per i futuri sistemi d'arma, assicurando che la tecnologia risponda a reali esigenze tattiche. Il successo del programma è visibile anche nelle carriere degli ufficiali: indossare il "patch" WTI è diventato un segno di eccellenza, con tassi di selezione per ruoli di comando significativamente più alti della media. Conseguenze Geopolitiche La rinascita tattica della flotta di superficie statunitense, orchestrata dallo SMWDC, produce conseguenze geopolitiche di vasta portata che si estendono ben oltre le dinamiche interne della US Navy. L'effetto più diretto e significativo è il rafforzamento della deterrenza. In un'era definita dalla competizione strategica con potenze revisioniste come la Cina e la Russia, la capacità percepita di una nazione di prevalere in un conflitto è la chiave per evitarlo. Una US Navy le cui navi sono manovrate da equipaggi più competenti, sicuri e letali, in grado di eseguire tattiche complesse in ambienti ad alta minaccia, innalza drasticamente il costo potenziale di un'aggressione. Per Pechino, la prospettiva di affrontare una flotta di superficie americana capace di operare efficacemente all'interno delle sue bolle A2/AD (Anti-Access/Area Denial) e di infliggere danni significativi alla Marina dell'Esercito Popolare di Liberazione, rende molto più rischiosa qualsiasi avventura militare, ad esempio contro Taiwan. Analogamente, una rinnovata competenza nella guerra anti-sottomarina (ASW) complica i calcoli strategici di Mosca, i cui sottomarini rappresentano una delle principali minacce alla stabilità nell'Atlantico del Nord e nel Mediterraneo. In secondo luogo, la competenza tattica rinvigorisce la credibilità delle alleanze americane. Nazioni come il Giappone, la Corea del Sud, le Filippine e i membri della NATO fondano la loro sicurezza sulla garanzia ultima fornita dagli Stati Uniti. La forza di questa garanzia non risiede solo nel numero di navi o aerei, ma nella loro efficacia reale in combattimento. La storia dello SMWDC è una narrazione potente che contrasta le tesi di un declino americano; dimostra un impegno concreto e un successo misurabile nel mantenere un vantaggio militare qualitativo. Per gli alleati, sapere che le navi americane con cui operano sono ai vertici della competenza tattica rende l'ombrello di sicurezza statunitense più tangibile e affidabile. Questo, a sua volta, consolida la coesione delle alleanze, riduce le tentazioni di alcuni partner di cercare accomodamenti con le potenze rivali e fornisce una base più solida per una difesa collettiva. Infine, una maggiore capacità militare si traduce in un maggiore peso diplomatico. Quando i diplomatici statunitensi negoziano su questioni che vanno dal commercio internazionale alla non proliferazione nucleare, la forza militare della nazione è una componente implicita ma fondamentale della loro leva. La capacità dimostrata dalla US Navy di garantire la libertà di navigazione nei mari contesi, di proteggere le rotte commerciali globali e di proiettare potenza in modo credibile, conferisce maggiore autorevolezza alla posizione americana nel consesso delle nazioni. La rivoluzione SMWDC, quindi, non è solo un affare militare, ma un investimento strategico che produce dividendi geopolitici, contribuendo a plasmare un ordine internazionale più stabile e favorevole agli interessi degli Stati Uniti e dei loro alleati. Conseguenze Strategiche Le implicazioni strategiche della riforma guidata dallo SMWDC sono altrettanto profonde e trasformative, poiché cambiano non solo l'efficacia delle singole unità, ma il modo stesso in cui la Marina può concepire e condurre le operazioni militari. La conseguenza più importante è l'abilitazione pratica di nuovi concetti operativi come le Operazioni Marittime Distribuite (DMO - Distributed Maritime Operations). Questo concetto prevede di disperdere la forza navale su un'area più vasta per aumentare la sopravvivenza e complicare il targeting avversario, mantenendo al contempo la capacità di concentrare la potenza di fuoco in modo coordinato. Una simile strategia è realizzabile solo se gli equipaggi possiedono un elevatissimo livello di competenza tattica, fiducia nei propri sistemi e capacità di operare con un alto grado di autonomia, pur rimanendo perfettamente integrati nella rete di comando e controllo. I WTI, con la loro profonda conoscenza della dottrina e la loro capacità di addestrare le squadre di plancia a questo livello, sono i veri abilitatori di questa visione strategica. Un'altra conseguenza strategica cruciale è l'accelerazione del ciclo di innovazione istituzionale. Lo SMWDC ha creato un meccanismo di apprendimento organizzativo senza precedenti. Il ciclo che va dall'esecuzione di un'esercitazione SWATT, alla raccolta e analisi dei dati tramite il DAWG, alla rapida revisione delle TTP, fino all'integrazione di queste lezioni nei corsi della SAWS, permette alla Marina di adattarsi a nuove minacce e tecnologie a una velocità prima impensabile. Questo accorcia drasticamente il "ciclo OODA" (Osserva, Orienta, Decidi, Agisci) a livello strategico. Di fronte a un avversario che introduce una nuova tattica o un nuovo sistema d'arma, la US Navy è ora in grado di sviluppare, testare e diffondere una contromisura efficace in tutta la flotta in tempi rapidissimi, come dimostrato dalla risposta alle minacce nel Mar Rosso. Questa agilità adattiva è un vantaggio strategico fondamentale nella competizione a lungo termine. Inoltre, l'investimento nel capitale umano rappresentato dai WTI costituisce un vantaggio strategico duraturo. Creando un'intera generazione di ufficiali che sono esperti tattici fin dalle prime fasi della loro carriera, la Marina sta costruendo una riserva di leadership e di pensiero critico che pagherà dividendi per decenni. Man mano che questi ufficiali saliranno ai vertici della catena di comando, la cultura "Warfighting First" e l'approccio analitico e basato sui dati diventeranno la norma, permeando l'intera istituzione. Questo cambia la qualità del processo decisionale a tutti i livelli, dai comandanti di nave ai vertici dell'Ammiragliato. Infine, come evidenziato da RDML Marks, in caso di conflitto su larga scala, lo SMWDC si trasformerebbe da centro di addestramento a centro di supporto operativo diretto, fornendo consulenza tattica in tempo reale alle forze dispiegate. Questo rende il centro una riserva strategica di "potere cerebrale" tattico, pronta a essere impiegata per risolvere i problemi più complessi del campo di battaglia. Conseguenze Marittime A livello puramente marittimo, l'impatto dello SMWDC si traduce in una rinnovata e tangibile capacità di esercitare il controllo del mare (Sea Control). Questo concetto, che era stato il fulcro della strategia navale durante la Guerra Fredda ma che si era affievolito negli anni successivi, è tornato a essere centrale. Il controllo del mare è la condizione essenziale che permette a una marina di svolgere tutte le altre sue missioni: dalla proiezione di potenza, al supporto delle forze a terra, alla protezione delle linee di comunicazione marittime. La competenza tattica infusa dallo SMWDC permette alle navi di superficie di confrontarsi con avversari sofisticati e prevalere, garantendo così il controllo di aree marittime vitali. Questo si manifesta in diversi domini specifici della guerra navale. Nella guerra anti-som e di superficie (ASW/SUW), la formazione di WTI specializzati e l'enfasi su scenari realistici durante le SWATT hanno permesso di affinare le capacità contro le minacce più insidiose, come i moderni sottomarini a propulsione silenziosa e gli sciami di piccole imbarcazioni d'attacco veloci. La capacità di analizzare onestamente le proprie performance, è cruciale in una disciplina complessa come l'ASW, dove l'errore può essere fatale. Nel campo della difesa aerea e missilistica integrata (IAMD), il lavoro dello SMWDC è stato forse il più visibile, specialmente alla luce degli eventi nel Mar Rosso. La capacità delle navi americane di abbattere dozzine di droni e missili ostili non è solo una testimonianza della qualità dei sistemi Aegis, ma soprattutto della preparazione degli equipaggi. I WTI IAMD hanno sviluppato e diffuso le TTP che permettono alle squadre di combattimento di gestire scenari di saturazione complessi, discriminare le minacce e ottimizzare l'uso delle armi a disposizione. Questa competenza garantisce la sopravvivenza di asset di alto valore come le portaerei e permette alla flotta di operare sotto minaccia. Inoltre, la rinascita tattica sta consentendo alla flotta di superficie di sfruttare appieno una nuova generazione di armi offensive a lungo raggio, come il Maritime Strike Tomahawk e l'SM-6 in modalità anti-nave. Come sottolineato, lo SMWDC è responsabile dello sviluppo delle dottrine d'impiego per queste nuove capacità, assicurando che le azioni in mare avvengano in maniera integrata in concetti operativi efficaci. Questo restituisce alla flotta di superficie un ruolo primario nella proiezione di potenza offensiva in mare, trasformando ogni cacciatorpediniere e incrociatore in una minaccia letale per le flotte avversarie a grande distanza. Infine, la maggiore competenza e fiducia permette alla US Navy di condurre Operazioni per la Libertà di Navigazione (FONOPs) in modo più assertivo e credibile, sfidando le rivendicazioni marittime illegittime e sostenendo il principio di un mare libero e aperto, fondamento dell'ordine globale. Conseguenze per l'Italia e per la M.M. Le profonde trasformazioni in atto nella US Navy hanno implicazioni dirette e positive per l'Italia, sia come membro cardine della NATO sia come nazione mediterranea i cui interessi di sicurezza ed economici sono intrinsecamente legati al mare. La prima e più ovvia conseguenza è il rafforzamento della sicurezza collettiva nell'area Euro-Atlantica e, in particolare, nel Mediterraneo. La Sesta Flotta statunitense, che opera in queste acque, beneficia direttamente della rivoluzione SMWDC. Navi più competenti e letali costituiscono un deterrente più efficace contro l'assertività navale russa nel Mediterraneo e contribuiscono a garantire la stabilità in una regione caratterizzata da archi di crisi, dal Nord Africa al Levante. Per l'Italia, la cui sicurezza dipende dalla stabilità del "Mediterraneo allargato", avere un partner americano più forte significa una maggiore sicurezza lungo i propri confini marittimi meridionali e la protezione delle vitali linee di comunicazione marittima che attraversano il bacino. In secondo luogo, la standardizzazione dell'eccellenza tattica all'interno della US Navy migliora sensibilmente l'interoperabilità con la Marina Militare. Le due marine operano regolarmente fianco a fianco in esercitazioni come Mare Aperto e nelle missioni NATO. Lavorare con un partner la cui dottrina è chiara, le cui procedure sono affinate e i cui equipaggi sono addestrati secondo i più alti standard rende le operazioni congiunte più fluide, sicure ed efficaci. La cultura del debriefing onesto e basato sui dati, promossa dallo SMWDC, può influenzare positivamente anche le dinamiche delle forze congiunte, portando a un apprendimento collettivo più rapido. La prevedibilità e l'affidabilità di un alleato tatticamente superiore sono un moltiplicatore di forza per l'intera Alleanza. Forse la conseguenza più interessante per l'Italia è la possibilità di vedere nello SMWDC un modello di successo da studiare e, potenzialmente, adattare. La Marina Militare, come tutte le marine moderne, affronta la sfida costante di mantenere un vantaggio qualitativo e di coltivare l'eccellenza tattica. Il percorso dello SMWDC offre una chiara "roadmap": la creazione di un centro di sviluppo bellico dedicato, l'investimento in una élite di ufficiali specializzati (i WTI), l'empowerment dei quadri più giovani, l'adozione di un approccio all'addestramento focalizzato sull'apprendimento dall'errore e la creazione di un ciclo di feedback rapido tra operazioni, dottrina e tecnologia. La Marina potrebbe trarre ispirazione da questo modello per rafforzare i propri centri di eccellenza, come il Centro di Addestramento Aeronavale (MARICENTADD), e per sviluppare percorsi di carriera che premino e coltivino la competenza tattica. Infine, una US Navy che innova rapidamente nel campo della dottrina e della tecnologia rappresenta per l'Italia un'importante fonte di conoscenza, facilitando uno scambio di lezioni apprese che può informare le scelte strategiche e di acquisizione della Marina Militare, assicurando che rimanga all'avanguardia nel mutevole panorama della guerra navale. Conclusioni In conclusione, l'analisi dell'operato decennale del Naval Surface and Mine Warfighting Development Center, come documentato dagli articoli del CIMSEC, dipinge il quadro di una delle più significative riforme militari del XXI secolo. Non si tratta di un semplice programma di addestramento, ma di una profonda trasformazione culturale che ha riposizionato la flotta di superficie statunitense all'avanguardia della competenza bellica. Partendo dalla consapevolezza di un'atrofia tattica, la US Navy ha costruito un'organizzazione di apprendimento continuo, il cui motore sono i Warfare Tactics Instructors e il cui metodo è un ciclo rigoroso di pianificazione, esecuzione e, soprattutto, umile autovalutazione. Il risultato è una forza più letale, agile, innovativa e, in definitiva, più temibile. Le conseguenze di questa rinascita si propagano ben oltre le plance delle navi. Geopoliticamente, rafforzano la deterrenza americana e la credibilità delle sue alleanze. Strategicamente, abilitano nuovi e più complessi concetti operativi, accelerando il processo decisionale e l'adattamento istituzionale. A livello marittimo, riaffermano la capacità di controllare il mare, condizione essenziale per la sicurezza globale. Per alleati come l'Italia, ciò si traduce in un partner più forte e affidabile, una maggiore sicurezza regionale e un modello virtuoso da cui trarre ispirazione. Da questa analisi emergono due raccomandazioni fondamentali. Per gli Stati Uniti e la loro Marina, è imperativo continuare a sostenere e finanziare il modello SMWDC, resistendo alla tentazione di tornare a una mentalità burocratica. L'investimento nel capitale umano deve rimanere la priorità, poiché è la fonte ultima del vantaggio competitivo. Per le marine alleate, inclusa quella italiana, la raccomandazione è duplice: studiare approfonditamente il successo dello SMWDC per adattarne i principi al proprio contesto e, al contempo, intensificare la collaborazione e l'integrazione con la US Navy per massimizzare i benefici di interoperabilità derivanti da questa rinnovata eccellenza. La lezione finale della storia dello SMWDC è potente e universale: nell'era dei droni e dell'intelligenza artificiale, la mente, la preparazione e il carattere del combattente umano rimangono il fattore decisivo sul campo di battaglia. Riferimenti
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OHi Mag Report Geopolitico nr. 149 Introduzione L'intervista rilasciata dall'ammiraglio Enrico Credendino, Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, a Lorenzo Cremonesi del Corriere della Sera, offre uno spaccato lucido e allarmante sulle nuove sfide che l'Italia e l'Occidente affrontano in un contesto globale radicalmente mutato. Dalle parole dell'ammiraglio emerge un quadro in cui la pace in Europa non è più un dato acquisito e il Mediterraneo è tornato a essere un'arena di confronto diretto tra potenze. Le lezioni apprese dal conflitto ucraino, la minaccia persistente della flotta russa, la guerra non dichiarata nel Mar Rosso e la necessità di un'urgente innovazione tecnologica e strategica costituiscono i pilastri di un'analisi che va ben oltre la cronaca militare. Si tratta di una riflessione profonda sulla postura strategica dell'Italia, nazione a vocazione marittima, di fronte a un mondo più pericoloso, dove la sicurezza nazionale si gioca quotidianamente nelle acque del "lago nostrum" e lungo le rotte commerciali globali. I fatti L'ammiraglio Credendino, nel suo dialogo con Cremonesi, descrive una realtà operativa profondamente trasformata dall'aggressione russa all'Ucraina. Il fatto centrale da cui si dipana l'intera analisi è la fine dell'era post-Guerra Fredda, un periodo in cui la Marina Militare operava prevalentemente in missioni di pace, considerando il continente europeo un'area sicura. Oggi, afferma Credendino, "abbiamo la guerra in casa". Questa nuova realtà si è manifestata con una presenza navale russa senza precedenti nel Mediterraneo, che tra il 2022 e il 2023 ha raggiunto picchi di quindici navi da guerra e tre sottomarini, costringendo la flotta italiana a un intenso e costante sforzo di monitoraggio. Sebbene oggi la presenza russa sia numericamente ridotta a cinque o sei unità, la minaccia persiste e si evolve. Mosca, infatti, sta cercando attivamente di stabilire una base navale a Derna, in Libia, una mossa che l'ammiraglio definisce "un dramma" per la sicurezza italiana. Questa proiezione di potenza russa nel cuore del Mediterraneo è accompagnata da un'intensa attività di spionaggio: le navi italiane al largo della Libia sono quasi costantemente pedinate da unità russe, spesso camuffate da pescherecci, ma in realtà cariche di sensori. Parallelamente, nel Mar Rosso, la Marina italiana è impegnata in una vera e propria "guerra" nell'ambito dell'Operazione Aspides, dove ha già abbattuto otto droni Houthi per proteggere il traffico commerciale. Le conseguenze geopolitiche di questo scenario sono di vasta portata. Il Mediterraneo non è più un "lago della NATO", ma un'arena di competizione strategica. La ricerca russa di una base in Libia segna un tentativo di Mosca di proiettare la propria influenza nel fianco sud dell'Europa, sfidando l'egemonia occidentale e creando un punto di pressione permanente sull'Italia e sull'Alleanza Atlantica. Questa mossa si inserisce in una più ampia strategia russa di destabilizzazione e di ricerca di "porti caldi", resa più urgente dalla chiusura del Mar Nero da parte della Turchia. La presenza russa in Libia altererebbe drasticamente gli equilibri di potere in Nord Africa, offrendo a Mosca una leva strategica sul controllo dei flussi energetici e migratori. Sul fronte mediorientale, l'impegno italiano e internazionale nel Mar Rosso, sebbene necessario per la sicurezza economica, inserisce l'Italia direttamente in un conflitto per procura che vede contrapposti l'Iran e i suoi alleati Houthi da un lato, e l'Occidente e le potenze regionali sunnite dall'altro. Questo posiziona l'Italia su una linea di faglia geopolitica estremamente volatile, con il rischio di un'escalation che potrebbe estendersi oltre la regione. Sul piano strategico, le dichiarazioni di Credendino evidenziano una duplice trasformazione. In primo luogo, la relazione con gli Stati Uniti si è evoluta da un concetto di "piena alleanza" a uno di "intercambiabilità". Esempi come il cacciatorpediniere Duilio che dirige caccia F-16 americani dimostrano un livello di integrazione operativa senza precedenti, una necessità imposta dalla complessità delle nuove minacce. Questo, nonostante il cambio di amministrazione alla Casa Bianca, suggerisce che la cooperazione militare sul campo prosegue indipendentemente dalle turbolenze politiche. In secondo luogo, il conflitto ucraino ha impartito una lezione strategica fondamentale: la vulnerabilità delle grandi navi da battaglia tradizionali di fronte a droni a basso costo. L'affondamento di unità russe "antiquate" ha sorpreso la NATO e ha reso evidente l'insostenibilità economica dell'utilizzare missili da milioni di euro per abbattere droni da poche decine di migliaia. La Marina italiana, e con essa tutte le flotte occidentali, è quindi costretta a un'accelerazione dell'innovazione, sviluppando nuove capacità di difesa basate su cannoni ad alta precisione, sistemi di jamming e droni difensivi. La creazione di un polo per la guerra sottomarina a La Spezia e gli investimenti in droni marini, aerei e sottomarini, indicano una chiara virata verso la guerra ibrida e asimmetrica. Le conseguenze marittime sono dirette e immediate. Il Mediterraneo è diventato un bacino più affollato, conteso e pericoloso, dove il rischio di un incidente tra flotte rivali è costantemente elevato. La sicurezza delle linee di comunicazione marittima (SLOCs) è la priorità assoluta, non solo nel Mar Rosso, ma anche nel Mediterraneo stesso. La minaccia non è solo di superficie, ma si estende al dominio sottomarino. Gli attacchi al gasdotto North Stream e ai cavi sottomarini hanno acceso un allarme sulla vulnerabilità delle infrastrutture che garantiscono il flusso di dati e di energia. Per la Marina Militare, questo si traduce nella necessità di un potenziamento della flotta, non solo in termini numerici, ma soprattutto qualitativi. Le nuove unità, come la portaerei Trieste, sono concepite come piattaforme multi-dominio, capaci di imbarcare caccia, elicotteri e droni di ogni tipo. Il progetto di una futura portaerei a propulsione nucleare indica l'ambizione di garantire una presenza marittima globale e persistente, un requisito indispensabile per una nazione la cui economia dipende dal mare. Per l'Italia, le implicazioni sono esistenziali. Come nazione eminentemente marittima, la cui prosperità economica e sicurezza dipendono dalla libertà di navigazione e dalla stabilità del Mediterraneo Allargato, il quadro descritto da Credendino rappresenta una sfida epocale. Una base russa in Libia non sarebbe solo un problema militare, ma una minaccia diretta alla sicurezza energetica e alla gestione dei flussi migratori. La guerra nel Mar Rosso mette a rischio le rotte commerciali vitali che collegano l'Italia ai mercati asiatici attraverso il canale di Suez. La necessità di aumentare il budget della Difesa al 2% del PIL, in linea con gli impegni NATO, diventa non più una richiesta astratta, ma una necessità strategica urgente per dotare la Marina degli strumenti necessari ad affrontare queste minacce. L'aumento del personale, richiesto dall'ammiraglio per raggiungere i livelli di marine simili come quella francese e britannica, è la conseguenza logica di un impegno operativo che si estende oggi dal Pacifico all'Artico, richiedendo un turn-over e una sostenibilità dello sforzo che l'organico attuale fatica a garantire. Conclusioni In conclusione, l'intervista all'ammiraglio Credendino non è un semplice resoconto operativo, ma un vero e proprio manifesto strategico che delinea la nuova, e pericolosa, realtà in cui l'Italia si trova a operare. Il Mediterraneo è tornato a essere il cuore pulsante delle tensioni globali, un'arena dove la proiezione di potenze rivali e le minacce ibride mettono a repentaglio la sicurezza e la prosperità nazionale. La Marina Militare è in prima linea, costretta a un rapido adattamento tecnologico e dottrinale per affrontare sfide che vanno dalla guerra convenzionale a quella asimmetrica e cibernetica. Di fronte a questo scenario, la raccomandazione strategica che emerge è chiara e ineludibile: l'Italia deve prendere piena coscienza della sua dimensione marittima e investire di conseguenza. È necessario sostenere politicamente ed economicamente il piano di ammodernamento e potenziamento della flotta, riconoscendo che la spesa per la difesa non è un costo, ma un investimento sulla sicurezza nazionale. Bisogna inoltre rafforzare la cooperazione internazionale, sia in ambito NATO che europeo, per condividere l'onere della sicurezza marittima e sviluppare una risposta coesa alle minacce comuni. Infine, è cruciale promuovere una "cultura del mare" a livello nazionale, per far comprendere che il futuro dell'Italia si gioca, oggi più che mai, sulle acque del Mediterraneo e sugli oceani del mondo. Riferimento: Lorenzo Cremonesi, "Credendino (Marina): «Noi in azione nel mar Rosso. I russi al largo della Libia spiano la nostra Marina»", Corriere della Sera, 10 Giugno 2025, https://www.corriere.it/cronache/25_giugno_08/credendino-marina-noi-in-guerra-nel-mar-rosso-i-russi-al-largo-della-libia-spiano-la-nostra-marina-ace1795e-c6fa-4afa-b651-bb52dfbc2xlk.shtml © RIPRODUZIONE RISERVATA
OHi Mag Report Geopolitico nr. 148 Introduzione L'imminente vertice NATO dell'Aia, previsto per la fine di giugno 2025, si profila non come una semplice riunione di routine, ma come un momento della verità per il futuro dell'Alleanza Atlantica. L'analisi condotta da Emma Ashford e Nevada Joan Lee per lo Stimson Center mette in luce come questo incontro possa definire la traiettoria delle relazioni transatlantiche sotto la seconda presidenza di Donald Trump. Dopo un'era di totale allineamento sotto l'amministrazione Biden, il ritorno di Trump ha introdotto un approccio transazionale e critico che ha scosso le fondamenta della fiducia europea. Il vertice diventa, quindi, un banco di prova cruciale per comprendere se la NATO sia destinata a un'ulteriore erosione, se l'impegno verso l'Ucraina verrà definitivamente archiviato e se i partner europei riusciranno a trovare una chiave per gestire un'alleanza con un leader americano sempre più imprevedibile e orientato all' "America First". I fatti L'analisi di Ashford e Lee si concentra su tre questioni fondamentali che determineranno il successo o il fallimento del vertice. In primo luogo, la dinamica interpersonale tra Donald Trump e i leader europei. Il passaggio da un presidente come Joe Biden, definito quasi "presidente della NATO" per il suo incrollabile sostegno, a un'amministrazione Trump che, attraverso figure come il vicepresidente J.D. Vance e il Segretario alla Difesa Pete Hegseth, ha etichettato i partner europei come "patetici", ha creato uno shock profondo. I leader europei si trovano di fronte a un bivio: tentare la via della conciliazione, come ha fatto con successo il laburista britannico Keir Starmer, che attraverso l'adulazione è riuscito a negoziare un accordo commerciale bilaterale, oppure scegliere la via del confronto, come tentato dal presidente ucraino Zelensky e da quello francese Macron, con risultati disastrosi in termini di relazioni con la Casa Bianca. Il ricordo di Trump che abbandona il vertice di Londra del 2019 dopo essere stato deriso in un fuorionda è un monito potente. La capacità dei leader europei di gestire l'ego e la suscettibilità del presidente americano, evitando gesti di sufficienza e cercando un terreno comune, sarà decisiva. Fino ad ora, solo leader ideologicamente allineati come l'ungherese Orbán e l'italiana Meloni, insieme al pragmatico Starmer, sembrano aver decifrato il codice per interagire efficacemente con la nuova amministrazione. La seconda grande incognita riguarda le possibili decisioni politiche concrete. Mentre vertici passati hanno prodotto cambiamenti sostanziali, come il nuovo modello di forze del 2022, quello dell'Aia si preannuncia più focalizzato su direttive che su dispiegamenti militari. La minaccia più temuta, un ritiro unilaterale delle truppe americane stazionate in Europa orientale, appare per ora improbabile. Il fulcro della discussione sarà, prevedibilmente, la spesa per la difesa. L'amministrazione Trump ha alzato l'asticella, spingendo per un nuovo obiettivo del 5% del PIL, una richiesta che suona come una provocazione per i paesi europei che hanno appena raggiunto, con grande fatica, la soglia del 2%. Il Segretario Generale della NATO, Mark Rutte, ha tentato una mediazione, proponendo una "contabilità creativa" che includa un 3,5% per la "difesa hard" e un 1,5% per aree correlate come le infrastrutture e la cybersecurity. Tuttavia, non è chiaro se Washington accetterà questa interpretazione, né se gli stati europei siano realmente in grado, o disposti, a sostenere un tale onere finanziario, come dimostra la recente revisione della difesa del Regno Unito, che si impegna a un più modesto 3%. La sensazione è che i leader europei cercheranno di resistere, ma alla fine Trump potrebbe accontentarsi di qualsiasi concessione che possa presentare come una "vittoria" al suo elettorato, sempre più scettico verso la NATO. La terza e più esistenziale questione riguarda il futuro stesso della NATO e il suo ruolo in Ucraina. La presidenza Biden aveva rivitalizzato l'Alleanza, ponendola al centro del coordinamento degli aiuti a Kyiv e prospettando un "ponte verso l'adesione" per l'Ucraina. L'amministrazione Trump ha invertito drasticamente questa rotta. Il Segretario alla Difesa Hegseth ha dichiarato senza mezzi termini che l'adesione dell'Ucraina alla NATO non è un'opzione realistica, che eventuali forze di pace dovrebbero operare al di fuori del quadro dell'Alleanza e che la sicurezza europea è, in ultima analisi, una responsabilità degli europei stessi. Questo spinge l'Europa a confrontarsi con la necessità di sviluppare una propria autonomia strategica e di difesa, un processo lento e irto di ostacoli. Decisioni difficili come il consolidamento dell'industria della difesa, il ripristino della leva obbligatoria o un massiccio aumento della spesa sono state finora evitate. Le iniziative europee, come la "coalizione dei volenterosi" per l'Ucraina, si sono rivelate poco efficaci, scontrandosi con problemi logistici e con la necessità di operare per consenso. Il vertice dell'Aia potrebbe essere l'occasione per presentare un nuovo piano di sostegno europeo a Kyiv, ma le prospettive di un accordo unanime appaiono scarse. Conclusioni In conclusione, il vertice NATO dell'Aia del 2025 si preannuncia come un evento dominato più dal "tono" e dall'atmosfera che da decisioni politiche rivoluzionarie. Sarà il linguaggio del corpo, le dichiarazioni estemporanee e le reazioni emotive a definire se l'incontro sarà una mera riunione di famiglia litigiosa o l'anticamera di un funerale. Il futuro dell'Alleanza Atlantica dipenderà dalla capacità dei leader europei di navigare le acque agitate di una relazione transatlantica ridefinita dall'approccio transazionale e imprevedibile di Donald Trump. Di fronte a questa realtà, l'Europa non può più permettersi di attendere passivamente. La raccomandazione strategica che emerge è inequivocabile: è imperativo accelerare il percorso verso una reale autonomia strategica europea. Questo non significa abbandonare la NATO, ma trasformarla in un'alleanza tra pilastri più equilibrati. L'Europa deve superare le proprie divisioni interne, consolidare la propria base industriale e tecnologica della difesa e assumersi la responsabilità primaria della sicurezza nel proprio vicinato. Solo un'Europa più forte e coesa potrà interagire efficacemente con qualsiasi amministrazione americana, garantendo che l'Alleanza rimanga uno strumento credibile per la sicurezza collettiva e non il palcoscenico di una progressiva e pericolosa irrilevanza. Riferimento: Emma Ashford, Nevada Joan Lee, "Three Big Questions for the 2025 NATO Summit", Stimson Center, 6 Giugno 2025, https://www.stimson.org/2025/three-big-questions-for-the-2025-nato-summit/ © RIPRODUZIONE RISERVATA
OHi Mag Report Geopolitico nr. 147 Introduzione L'Operazione Ragnatela, condotta dall'Ucraina il 1° giugno 2025, non è stata semplicemente un'audace incursione militare, ma una vera e propria "cartolina dal futuro" della guerra, un evento destinato a segnare una svolta epocale nelle dottrine strategiche globali. Utilizzando una combinazione letale di tecnologie a basso costo, inganno logistico e intelligenza artificiale, Kyiv è riuscita a colpire il cuore profondo del dispositivo militare russo, dimostrando che nell'era della guerra asimmetrica nessun santuario può più considerarsi inviolabile. Questo attacco ha scatenato un'onda d'urto che va ben oltre i danni materiali inflitti, innescando una complessa catena di conseguenze geopolitiche, strategiche, tecnologiche e persino marittime. Il presente saggio, basandosi sull'analisi di diverse fonti specializzate tra cui Chatham House, l'IISS, l'Atlantic Council e il Lawfare Institute, si propone di dissezionare i fatti dell'Operazione Ragnatela e di esplorarne le profonde implicazioni per l'equilibrio globale, per la NATO e, di conseguenza, per la sicurezza nazionale dell'Italia. I Fatti L'esecuzione dell'Operazione Ragnatela, pianificata per oltre diciotto mesi, rappresenta un capolavoro di guerra asimmetrica e inganno strategico. Secondo le informazioni rilasciate dall'intelligence ucraina e analizzate da istituti come l'IISS, l'attacco ha impiegato 117 droni per colpire simultaneamente almeno quattro basi aeree russe, alcune situate a migliaia di chilometri dal fronte, come quella di Belaya nella regione di Irkutsk. L'aspetto più rivoluzionario, come dettagliato dall'analista Nicholas Weaver del Lawfare Institute, risiede nel metodo di infiltrazione. Prendendo spunto dal mito del cavallo di Troia, i servizi segreti ucraini (SBU) hanno nascosto le piattaforme di lancio all'interno di "case modulari in legno" o in doppi fondi di container ISO, trasportati da camionisti russi del tutto ignari del loro reale carico. Una volta posizionati a pochi chilometri dagli obiettivi, i droni sono stati rilasciati e guidati verso i loro bersagli. Secondo le stime ucraine, l'operazione ha danneggiato o distrutto 41 aerei, inclusi bombardieri strategici Tu-95, causando perdite per circa 7 miliardi di dollari. Questi velivoli sono di fatto insostituibili, poiché la loro produzione è cessata nei primi anni '90. Il successo dell'operazione è ancora più notevole se si considera il suo costo irrisorio, basato sull'impiego di tecnologie accessibili. Contrariamente a quanto si possa pensare, non si è trattato di un attacco completamente autonomo. Le analisi dei filmati suggeriscono l'uso di un approccio ibrido: il software open-source ArduPilot, un sistema di pilotaggio automatico per hobbisti, è stato utilizzato per la navigazione fino ai waypoint prestabiliti, dopodiché operatori umani hanno assunto il controllo manuale per la fase terminale, garantendo una precisione chirurgica. L'intelligenza artificiale, come riportato da Formiche.net, ha svolto un ruolo cruciale nella fase di pianificazione, addestrando gli algoritmi a riconoscere e colpire i punti deboli strutturali degli aerei russi, utilizzando come dati di training persino modelli esposti nei musei. Le Conseguenze Geopolitiche Le ripercussioni geopolitiche dell'attacco sono state immediate e profonde, proiettando un'ombra di instabilità sull'equilibrio globale. Secondo l'analisi di George Beebe del Quincy Institute, l'obiettivo primario dell'operazione non era tanto militare quanto politico, con Washington come principale destinatario del messaggio. Colpendo asset strategici russi, parte integrante della triade nucleare, Kyiv ha deliberatamente alzato la posta, cercando di forzare la mano all'amministrazione Trump, rendendo più difficile un percorso negoziale e spingendo per un inasprimento delle sanzioni. Questo ha creato una situazione di altissima tensione, con il presidente americano che, secondo alcune fonti, si sarebbe infuriato per un'azione percepita come un ostacolo alla pace. Per la Russia, l'attacco è stato un'umiliazione profonda, esponendo gravi falle nella sicurezza interna e mettendo il Cremlino sotto una pressione senza precedenti per una risposta decisa, al fine di non apparire debole. Il rischio, avverte Beebe, è che Mosca possa percepire l'attacco come un'azione congiunta Ucraina-NATO, superando una "linea rossa" legata alla sicurezza dei propri asset nucleari e innescando un'escalation incontrollabile. Tuttavia, l'analista Mark J. Massa dell'Atlantic Council offre una prospettiva complementare e cruciale. Egli sostiene che la mancata rappresaglia nucleare da parte di Mosca, nonostante l'attacco rientrasse nei criteri della sua dottrina nucleare aggiornata, dimostra che il rischio di un'escalation automatica a seguito di attacchi convenzionali è stato probabilmente esagerato. Ciò non elimina il pericolo, ma suggerisce che esiste una soglia di tolleranza più alta di quanto teorizzato, in cui attacchi che non costituiscono una minaccia esistenziale all'intero arsenale nucleare potrebbero non scatenare una risposta atomica. Si delinea così un nuovo, pericoloso equilibrio in cui i limiti vengono costantemente testati. Le Conseguenze Strategiche Dal punto di vista strategico, l'Operazione Ragnatela ha demolito uno dei pilastri fondamentali della dottrina militare russa: la "profondità strategica". La vastità del suo territorio non è più una garanzia di sicurezza per le sue infrastrutture militari e industriali critiche. Se droni a basso costo, lanciati dall'interno del paese, possono colpire basi in Siberia, allora nulla è più veramente al sicuro. Questa nuova realtà, però, non riguarda solo la Russia. Come sottolineato da Chatham House e dall'Atlantic Council, anche i paesi della NATO sono estremamente vulnerabili. Per decenni, l'Alleanza ha trascurato la protezione delle proprie infrastrutture strategiche, concentrando asset costosi e insostituibili in poche basi, spesso note e visibili da immagini satellitari. La flotta di bombardieri strategici americani, come fa notare Massa, è spesso parcheggiata allo scoperto, un bersaglio invitante per minacce simili. L'operazione ucraina funge da campanello d'allarme, dimostrando che questi siti sono ora bersagli facili per attacchi a lungo raggio condotti con tecnologie accessibili non solo a stati, ma anche ad attori non statali. La guerra non si combatte più solo lungo confini definiti, ma ovunque esista un'infrastruttura critica da colpire. L'impossibilità di "proteggere tutto, ovunque, sempre" impone un radicale ripensamento del concetto di difesa del territorio nazionale. Si impongono scelte difficili su quali asset prioritizzare, spostando il focus strategico dalla difesa passiva alla deterrenza attiva, all'intelligence predittiva e alle operazioni di disturbo, come quelle condotte dalle forze speciali, il cui ruolo, secondo Massa, ritorna centrale nella competizione tra grandi potenze. Le Conseguenze Marittime Sebbene l'Operazione Ragnatela si sia svolta in un contesto terrestre e aereo, i suoi principi e le sue tattiche hanno implicazioni devastanti e dirette per il dominio marittimo. Le lezioni apprese sono perfettamente trasferibili a porti, rotte commerciali e flotte navali, aree finora considerate relativamente sicure da questo tipo di minaccia interna. I porti commerciali e le basi navali, con la loro vasta estensione e la concentrazione di asset di altissimo valore (navi da guerra all'ancora, navi portacontainer, gru, depositi di carburante), rappresentano l'equivalente marittimo delle basi aeree: sono obiettivi "soft", complessi da difendere in modo perimetrale e ideali per attacchi di saturazione a basso costo. La tattica del "cavallo di Troia" utilizzata con i camion assume una dimensione ancora più allarmante se applicata al trasporto marittimo. Un singolo mercantile può trasportare migliaia di container, ognuno dei quali potrebbe, in teoria, nascondere un sistema di lancio per droni, trasformando una nave civile in una portaerei clandestina capace di proiettare una minaccia a migliaia di chilometri di distanza. Nicholas Weaver ha persino ipotizzato l'uso di "narco-sottomarini autonomi carichi di droni", un'evoluzione che renderebbe il rilevamento e l'intercettazione quasi impossibili. La vulnerabilità delle flotte militari è altrettanto evidente. L'esperienza nel Mar Rosso, dove costosi missili intercettori vengono usati per abbattere droni economici, dimostra l'insostenibilità economica dell'attuale postura difensiva navale. Le marine militari, progettate per affrontare minacce convenzionali su vasta scala, sono impreparate a gestire attacchi asimmetrici, diffusi e a sciame, lanciati da prossimità. La ragnatela, quindi, si estende inevitabilmente agli oceani, minacciando di paralizzare le catene logistiche globali e di rendere obsolete le tradizionali dottrine di potere navale. Le Conseguenze per l'Italia Per l'Italia, in quanto membro fondatore della NATO e nazione strategicamente esposta al centro del Mediterraneo, le lezioni dell'Operazione Ragnatela sono dirette, urgenti e non possono essere ignorate. Le vulnerabilità evidenziate per l'Alleanza si applicano pienamente, e forse con maggiore intensità, al nostro Paese. Le basi militari, sia nazionali che alleate sul nostro territorio, i porti commerciali di importanza strategica come Genova, Trieste e Gioia Tauro, le centrali elettriche e le infrastrutture energetiche come i rigassificatori e i gasdotti, sono ora potenzialmente esposti a minacce simili. Queste minacce, è fondamentale sottolinearlo, potrebbero essere portate non solo da attori statali ostili, ma anche da gruppi terroristici o altre entità non statali che possono acquisire queste tecnologie a basso costo sul mercato nero. La difesa nazionale non può più basarsi unicamente su costosi sistemi tradizionali, come caccia intercettori o batterie missilistiche progettate per minacce di altra natura. È imperativo per l'Italia accelerare gli investimenti in un ecosistema di difesa multi-dominio, con un'enfasi specifica sulle capacità anti-drone (C-UAS), sulla guerra elettronica per il disturbo dei segnali di guida (jamming), e sull'integrazione pervasiva dell'intelligenza artificiale nei sistemi di comando e controllo per una risposta più rapida ed efficace. Inoltre, la crescente instabilità geopolitica e il rischio di escalation tra grandi potenze, evidenziati dall'attacco, richiedono che l'Italia, insieme ai partner europei, rafforzi la propria autonomia strategica. La dipendenza da un'architettura di sicurezza transatlantica, per quanto fondamentale, deve essere integrata da una maggiore capacità di azione autonoma a livello europeo, per poter rispondere a minacce ibride e asimmetriche che si manifestano con una velocità e una complessità senza precedenti. Conclusioni In definitiva, l'Operazione Ragnatela rappresenta un punto di non ritorno nella storia della conflittualità moderna, un momento spartiacque che ridefinisce le regole dell'ingaggio. Ha dimostrato in modo inequivocabile che l'era dei santuari strategici protetti dalla distanza geografica è finita. L'ingegnosa combinazione di droni a basso costo, logistica clandestina e intelligenza artificiale ha creato un nuovo modello di guerra asimmetrica, accessibile a una vasta gamma di attori e in grado di proiettare una minaccia letale ovunque nel mondo. L'attacco ha messo a nudo la fragilità delle dottrine di difesa convenzionali e l'insostenibilità economica dei sistemi anti-aerei tradizionali di fronte a minacce low-cost e diffuse. Per la Russia è stata un'umiliazione strategica; per l'Ucraina, una dimostrazione di resilienza e innovazione; per la NATO e per l'Italia, un avvertimento che non può essere ignorato. La raccomandazione che ne consegue è tanto chiara quanto urgente. È necessario un ripensamento fondamentale della postura difensiva, abbandonando un approccio monolitico e costoso per abbracciare un modello agile, stratificato e tecnologicamente avanzato. L'Italia e i suoi alleati dovrebbero investire massicciamente in un portafoglio diversificato di soluzioni anti-drone, che spazino dal jamming alla cyber-difesa, dall'intelligence predittiva basata su AI a sistemi di intercettazione a basso costo. È cruciale promuovere l'innovazione e l'adattamento rapido, imparando costantemente dalle lezioni dei conflitti in corso. La sicurezza nazionale non dipenderà più solo dalla potenza di fuoco, ma dalla velocità di apprendimento e dalla capacità di anticipare e neutralizzare minacce complesse e decentralizzate. Riferimenti:
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OHi Mag Report Geopolitico nr. 146 Introduzione L’alleanza tra Donald Trump ed Elon Musk, un tempo celebrata come l'alba di una nuova era di governance tecno-populista, si è sgretolata in modo spettacolare, trasformandosi in una delle faide più dirompenti della politica americana contemporanea. Quello che era iniziato come un ambizioso progetto di "ottimizzazione" dello Stato, incarnato dal Dipartimento per l'Efficienza del Governo (DOGE) guidato da Musk, si è concluso in un'accesa battaglia pubblica combattuta a colpi di accuse sui social media, minacce economiche e rivelazioni personali. Questa rottura non rappresenta un semplice litigio tra due personalità egocentriche, ma segna un punto di svolta cruciale, rivelando le insanabili contraddizioni ideologiche all'interno del movimento MAGA e innescando una serie di conseguenze a cascata. La presente analisi, basata su diverse fonti giornalistiche, si propone di esaminare i fatti che hanno portato a questa deflagrazione e di analizzarne le profonde implicazioni geopolitiche, strategiche, tecnologiche e le ripercussioni per l'Italia. I fatti Il casus belli che ha innescato la conflagrazione pubblica è stata la controversa legge di bilancio promossa dal Presidente Trump, la "Big Beautiful Bill". Elon Musk, che fino a poco prima aveva guidato il DOGE con il mandato di tagliare drasticamente la spesa pubblica, ha definito la manovra un "disgustoso abominio" e uno spreco che vanificava i suoi sforzi. La critica, inizialmente tecnica, è rapidamente degenerata in uno scontro personale. Attraverso la sua piattaforma X, Musk ha rinfacciato a Trump un'ipocrisia di fondo, riesumando vecchi post in cui il Presidente stesso criticava i deficit di bilancio. La risposta di Trump non si è fatta attendere: dallo Studio Ovale, ha espresso la sua "delusione" per l'ex alleato, accusandolo di ingratitudine e insinuando che la sua ostilità derivasse dal taglio dei sussidi per i veicoli elettrici, un colpo diretto a Tesla. La faida è esplosa in un crescendo di attacchi. Musk ha rivendicato un ruolo decisivo nella vittoria elettorale di Trump, definendo il Presidente un "ingrato". Ha poi sganciato quella che ha definito una "bomba mediatica", accusando Trump di essere implicato nei "file di Epstein" e suggerendo che questo fosse il vero motivo della loro mancata pubblicazione. Ha inoltre appoggiato pubblicamente l'idea di un impeachment, proponendo il vicepresidente J.D. Vance come sostituto. Trump ha replicato minacciando di cancellare i lucrosi contratti governativi delle aziende di Musk, spingendo quest'ultimo a una reazione provocatoria, poi ritrattata, di voler dismettere la navicella Dragon, vitale per la NASA. Le conseguenze geopolitiche di questa frattura sono immediate e profonde. In primo luogo, l'immagine della destra americana ne esce indebolita e frammentata. Come osservato da diversi analisti, avversari strategici come la Cina, il cui intellettuale di punta Wang Huning potrebbe commentare la vicenda come un perfetto esempio di "America contro America", osservano con divertimento questo spettacolo di autodistruzione. La lotta intestina tra le due figure più iconiche del mondo conservatore-libertarian americano proietta un'immagine di instabilità e inaffidabilità. Questo caos interno si riflette sulla fiducia degli investitori internazionali. Grandi fondi pensione e società di investimento, allarmati dall'aumento del debito pubblico previsto dalla legge di Trump e dall'imprevedibilità politica, stanno riconsiderando la loro massiccia esposizione al mercato statunitense. Gestori finanziari di calibro globale hanno espresso scetticismo sulla sostenibilità del debito americano, iniziando a guardare con maggiore interesse a mercati percepiti come più stabili, come quello europeo. Questo potenziale spostamento di capitali non solo indebolisce il dollaro, ma segnala anche un calo dell'attrattività del "sistema America" nel suo complesso, un tempo considerato il porto più sicuro per gli investimenti. La "sinistra globalista", come definita da alcuni commentatori, emerge come la principale beneficiaria di questa implosione, che lascia il campo libero a narrazioni alternative e indebolisce il fronte sovranista su scala globale. Dal punto di vista strategico, la rottura tra Trump e Musk ha innescato una vera e propria guerra civile all'interno del movimento MAGA. L'alleanza era fondata su un equivoco di fondo: la coesistenza tra il populismo nazionalista e protezionista di Trump e la visione tecnocratica, globalista e hayekiana di Musk. L'esperimento del DOGE si è schiantato contro la realtà di una burocrazia federale refrattaria e contro le divergenze ideologiche su temi come l'immigrazione di talenti, vitale per Musk ma osteggiata dalla base di Trump. La faida ha rivelato che il movimento non è più un blocco monolitico, ma un'arena di fazioni in lotta per l'egemonia. Musk, forse in un eccesso di ambizione, sembra aver tentato di rendersi egli stesso il nuovo leader della base, fallendo. Ora si trova in una posizione precaria: alienato dalla Casa Bianca ma troppo compromesso con la destra per essere accolto dai Democratici. La sua idea di un "terzo partito" al centro rischia di fungere principalmente da "spoiler" per i Repubblicani, frammentando ulteriormente l'elettorato. La dinamica che si è creata è stata definita di "mutua distruzione assicurata" (MAD). Trump detiene il potere politico, Musk quello economico e mediatico. Sono diventati così interdipendenti e allo stesso tempo così ostili che un attacco totale da parte di uno dei due provocherebbe danni catastrofici anche a se stesso, creando una situazione di stallo altamente instabile che paralizza l'agenda politica e legislativa repubblicana. Le ripercussioni si estendono in modo critico al dominio tecnologico e alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti. La minaccia di Trump di recidere i contratti governativi di Musk, sebbene in parte una mossa retorica, ha messo a nudo una vulnerabilità strategica fondamentale per Washington. Le aziende di Musk, in particolare SpaceX, non sono semplici fornitori, ma partner quasi monopolistici e insostituibili per il complesso militare-industriale e spaziale americano. SpaceX è essenziale per i lanci della NASA, per il Pentagono e per l'NRO (National Reconnaissance Office), che si affida all'azienda per dispiegare la sua nuova generazione di satelliti spia. Starlink, la costellazione satellitare di Musk, fornisce connettività cruciale per le operazioni militari in aree remote. Un taglio dei contratti non solo devasterebbe l'impero di Musk, ma paralizzerebbe programmi spaziali e di difesa vitali per la sicurezza nazionale, lasciando gli Stati Uniti dipendenti, ad esempio, dalla Russia per l'accesso alla Stazione Spaziale Internazionale. Questa dipendenza da un singolo attore, ora imprevedibile e in aperto conflitto con il Presidente, rappresenta un rischio strategico enorme. Sul fronte commerciale, la faida danneggia anche Tesla, la cui immagine è offuscata dalle controversie politiche del suo CEO, rendendola più vulnerabile alla formidabile concorrenza di giganti cinesi come BYD. Infine, le conseguenze di questo scontro si avvertono anche per l'Italia e per l'Europa. La turbolenza ai vertici della politica americana costringe gli alleati a un ricalcolo strategico. Un'amministrazione Trump indebolita da lotte intestine e un movimento conservatore fratturato e imprevedibile rappresentano un partner internazionale meno affidabile. Per un governo come quello italiano, che ha cercato un dialogo costruttivo con l'amministrazione repubblicana, questa instabilità rappresenta un fattore di rischio significativo. Non è un caso che, in questo contesto, si notino segnali di un riavvicinamento e di un dialogo più cordiale tra leader europei, come l'incontro tra Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron. Di fronte all'incertezza americana, la necessità di rafforzare la coesione e l'autonomia strategica europea diventa più pressante. Pragmaticamente, l'Europa deve prepararsi a un'America più introflessa e meno prevedibile, diversificando le proprie alleanze e rafforzando i propri meccanismi interni di stabilità e decisione. Inoltre, il possibile deflusso di capitali dal mercato statunitense, spaventato dall'instabilità politica e fiscale, potrebbe creare nuove dinamiche economiche per il continente europeo, presentando sia opportunità di attrarre investimenti sia rischi legati alla volatilità globale. Per l'Italia, la lezione è chiara: l'era di un'alleanza transatlantica monolitica e scontata potrebbe essere al termine, richiedendo maggiore agilità diplomatica e un più forte ancoraggio all'interno dell'Unione Europea. Conclusioni In conclusione, la spettacolare rottura tra Donald Trump ed Elon Musk trascende la cronaca di una lite personale per assurgere a simbolo delle profonde crisi che attraversano la destra americana e, di riflesso, l'intero scenario politico occidentale. L'alleanza, nata sotto la stella di un'utopia tecnocratica innestata sul populismo, si è rivelata un patto fragile, minato da visioni del mondo inconciliabili. Il suo fallimento non lascia solo macerie, ma anche un panorama politico radicalmente alterato. Entrambi i protagonisti ne escono indeboliti: Trump vede la sua egemonia sul movimento MAGA messa in discussione, mentre Musk si ritrova isolato e vulnerabile alle pressioni politiche ed economiche. La conseguenza più pericolosa è l'instaurarsi di una "guerra fredda" interna, una condizione di "mutua distruzione assicurata" che rischia di paralizzare l'agenda politica americana e di proiettare un'immagine di inaffidabilità cronica all'estero. Per gli alleati come l'Italia, l'insegnamento è inequivocabile. Affidarsi a un unico partner, per quanto potente, la cui stabilità interna è così precaria, è una strategia rischiosa. La raccomandazione non può che essere quella di una maggiore cautela, di una diversificazione strategica delle relazioni internazionali e, soprattutto, di un investimento convinto nel rafforzamento della coesione e dell'autonomia decisionale dell'Unione Europea. Di fronte a un'America contro sé stessa, l'Europa deve trovare la forza di essere più unita e protagonista del proprio destino. Riferimenti
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